L’ILLUSIONE DEL CEMENTO
Angelo Maggio con il progetto ‘Cemento Amato’ compie la sua personale indagine visiva e antropologica sugli edifici calabresi non finiti, che si configurano come monumenti alle aspettative tradite di un’intera regione
di Gaetano Moraca
Lo scorso mese di gennaio si sono svolte le elezioni regionali in Emilia Romagna e in Calabria, ma di quest’ultima si è faticato a trovare menzione su giornali e tv. «La Calabria non esiste, lo so perché ci sono nato», mi verrebbe da dire parafrasando Giuseppe Rizzo. Sulla Calabria da tempo pesa un senso di sconfitta, una sensazione di resa, da ogni punto di vista la si osservi, figlia della sfiancante attesa di uno sviluppo che, seppur promesso a ogni tornata elettorale, non è mai davvero arrivato. «Per tutti gli anni Ottanta dal cielo piovvero le lire – nota lo scrittore Gioacchino Criaco – si costruiva sulla speranza che i soldi non sarebbero mai finiti. Sul più bello i soldi finirono, quando ancora di finito non c’era nulla». I calabresi si sono affidati (e si affidano) ai “fondi già stanziati”, all’imminente boom turistico, alle situazioni sempre sul punto di sbloccarsi, abbuffandosi al tavolo delle false speranze e contribuendo a creare una regione interrotta.
Se il “non finito” nella storia dell’arte si configura come scelta stilistica e concettuale (da Tiziano e Michelangelo fino a Gaudì, passando per Rodin e chissà quanti altri), il “non finito calabrese” invece è una categoria dello spirito, insieme carica di aspettative e terribilmente colma di malinconia. «Nel 2004 durante la Settimana Santa di San Luca (in provincia di Reggio Calabria, NdR) ho fotografato una statua del Cristo Risorto davanti a un fabbricato non finito. Con mia grande sorpresa quella foto piacque moltissimo agli abitanti che me ne chiesero addirittura delle stampe: quel paesaggio urbano era considerato normale, non li disturbava». A parlare è Angelo Maggio, classe 1967, fotografo etnografico che dal 1996 ritrae i calabresi durante i riti religiosi e che da quel giorno incentra la sua personale indagine anche sul non finito. Maggio s’inerpica così nei paesi di montagna, scende in quelli di mare, si sposta con disinvoltura dalle città fino alla provincia più remota e, nelle abitazioni prive d’intonaco da cui spuntano i mattoni rossi, nei piloni che non sorreggono alcun tetto o nelle finestre senza infissi, fotografa le aspettative deluse fatte cemento.
«A differenza del non finito siciliano, quello calabrese è relativo ai fabbricati privati, favoriti da regolamenti comunali elastici. Ma la costante sui cui cerco di ragionare è questa: quante famiglie, quanti genitori hanno costruito case o piani nuovi su quella esistente, nella speranza di veder vivere i figli vicino a loro? Il boom c’è stato tra gli anni Settanta e Ottanta, con strascichi fino ai Novanta». Secondo i dati CRESME, il primo condono edilizio del 1985 ha prodotto l’insorgere – nel solo biennio 1983/1984 – di 230.000 manufatti abusivi, mentre quelli realizzati fra il 1982 e tutto il 1997 sarebbero 970.000. Come i reperti archeologici, i non finiti calabresi sottolineano un’assenza: ma se i primi sono traccia di un passato spesso illustre, i secondi sono il risultato di aspettative deluse, di un futuro mai arrivato e che probabilmente mai arriverà. La loro presenza ormai scontata li rende invisibili agli occhi di un calabrese, i loro contorni risultano sfumati, la loro materialità quasi impalpabile perché parte del paesaggio.
«La cosa tragica – continua Maggio – non è che non siano finiti né che siano brutti, quanto che non siano abitati». Lo spopolamento della Calabria, specie delle aree interne, sta assumendo risvolti apocalittici (secondo i dati Svimez, se si continua di questo passo la Calabria perderà 500 mila abitanti nei prossimi 50 anni), lasciando le abitazioni dei pochi che restano colme di disillusione e tristezza. La vulgata vuole che queste case esteriormente non terminate, godano di interni lussuosissimi, quasi a voler celare le ricchezze di chi le abita. «È una bufala bella e buona. Ricordo di un uomo che dopo essersi sposato ha ultimato la casa non finita in cui aveva sempre vissuto. Ecco, lui è stato mosso da una visione di futuro, da un progetto. Molti cala- bresi invece hanno smesso d’immaginarlo il futuro».
Il non finito continua a stimolare dibattiti e riflessioni. C’è chi, come lo storico dell’architettura italiana Luigi Prestinenza Puglisi – intervenuto durante un dibattito organizzato dal Lanificio Leo nell’ambito del Festival Siabaca – parla di un’opportunità per il “non finito”, così com’è stato per Favara in Sicilia col Farm Cultural Park; o chi, come il critico d’arte Pietro Gaglianò, sostiene che il “non finito” «contiene una strana forma di speranza, una prospettiva per un avvenire da risolvere». Meno ottimista sembra Maggio, che ha proposto ad alcuni sindaci di “adottare” un edificio non finito e trasformarlo in un monumento, come monito rispetto agli errori (e orrori) del passato. Provocazione non accolta. «Rende l’idea della lungimiranza politica calabrese un mio scatto di un grosso manifesto elettorale raffigurante dei ragazzini che recitava: “non lasciare il loro futuro nelle mani di chi lo ha già com- promesso”. Indovina davanti a che tipo di edificio era stato posizionato?».
In queste pagine: classici casi di “non finito calabrese”, sia in città sia fuori. Tutte le foto sono di Angelo Maggio