THEO SOYEZ – FRENCH TOUCH IN ANALOGICO
Theo Soyez è un giovane fotografo italo-francese, amante dell’analogico, che si sta ritagliando il suo spazio nel mondo della musica (e non solo)
di Filippo Duò
Classe 1996, Theo Soyez è nato a Parigi e cresciuto a Roma, assorbendo per anni le influenze creative da parte del padre fotografo, fondamentali per avvicinarsi alla strada che ha poi deciso di intraprendere. A Milano ha poi concretizzato la passione, realizzando cover e portrait di numerosi esponenti della scena musicale emergente italiana.
Parallelamente a ciò si è spinto verso territori sempre più legati alla moda, scattando per brand come Arcosanti e Paciotti, in quella che è la naturale evoluzione del suo linguaggio estetico.
Abbiamo così fatto quattro chiacchiere con lui per addentrarci nella sua tecnica fotografica e scoprire qualcosa in più sul suo percorso: ecco cosa ci ha raccontato.
Raccontaci il tuo percorso: come ti sei avvicinato alla fotografia?
La fotografia mi è sempre stata vicina. Sono nato a Parigi, dove mio padre lavorava come fotografo per alcuni magazine, mentre mia madre, studentessa di psicologia, era solita posare per lui. A Roma, sulle pareti degli appartamenti dove sono cresciuto, erano appese le sue stampe e tra i libri e le riviste delle biblioteche ho scoperto autori come Mapplethorpe, Newton, Fontana e Capa. Il mio percorso da fotografo è iniziato a Milano, dove mi sono trasferito per studiare ingegneria dei materiali e delle nanotecnologie al Politecnico. Qui, con i soldi di una borsa di studio, mi sono comprato una macchina fotografica e ho iniziato a fare i primi scatti. Successivamente, verso la fine della triennale, ho preso l’attrezzatura di mio padre, ho scoperto il medio e il grande formato e ho iniziato a lavorare seriamente alle mie fotografie.
Quali sono state le esperienze per te più formative nel corso dei primi anni? Cosa ti ha fatto maturare di più?
Quando ancora non avevo una macchina fotografica ho preso delle lezioni private da un fotografo che lavorava su pellicola. Mi ha insegnato le nozioni base della tecnica fotografica facendomi scattare con il banco ottico, una macchina che è risultata essere molto formativa. La complessità dei procedimenti manuali richiesti da ogni singolo scatto può portare a diversi errori didattici, e sbagliando con il banco ottico ho imparato tanto. A parte questa breve esperienza, il resto l’ho imparato da autodidatta. Sono molto cresciuto quando ho preso uno studio e l’ho frequentato in maniera quotidiana per incontrare persone, fare ricerca e scattare.
Come hai cominciato a lavorare nell’ambito musicale?
Per alcuni anni ho frequentato gli stessi luoghi della scena musicale emergente, primo tra tutti il complesso industriale di Tucidide. È in questi ambienti che ho iniziato a scattare le prime cover e i primi portrait. Man mano che gli stessi artisti andavano affermandosi nell’industria musicale, anche le mie collaborazioni con loro diventavano più “serie”, fino a diventare dei lavori pagati.
In particolare mi piacerebbe approfondire il concept alla base di THB, l’album dei Thelonious B.
Alla base del concept della cover di THB, vi è l’idea di creare un’immagine iconica, anacronistica e in grado di riaffermare l’unione del duo in un momento in cui si vociferava di un loro possibile scioglimento. Il bacio, in fotografia, appare tanto silenzioso quanto capace di trasmettere l’intensità del significato retrostante. Penso alla famosa immagine di Brežnev e Honecker in cui il significato è politico, oppure il bacio tra il medico Aiuti e la paziente malata di AIDS, in cui si vuole trasmettere solidarietà e progresso scientifico. Nella cover di THB, il significato è legato alla fratellanza. L’estetica del fondale bianco e della pellicola b&w invece sono ispirati al genio di Richard Avedon e in particolar modo al suo libro In The American West, progetto di cui sono molto appassionato. Per quanto riguarda il lavoro visivo promozionale di supporto al disco, ho realizzato una serie di scatti di mani che si intrecciano e si incontrano, in quelli che sono reali gang signs, ovvero segni di appartenenza fra persone molto legate tra loro. Non ci sono solo le mani dei Thelonious B., ma anche quelle di tutti coloro che ci sono stati nel corso del periodo di scrittura e registrazione: da quelle del grafico Zomby Roger, passando per Goldie KK, fino alle mie, per fare degli esempi. Ogni foto testimonia un vissuto estremamente importante.
Hai lavorato anche in ambito moda: quali sono le principali differenze tra i due mondi?
Non credo di essere in grado di descrivere le differenze tra i due mondi in maniera esaustiva. Posso rispondere alla domanda per quella che è stata la mia esperienza: la gestione di un set fashion mi è sempre apparsa più complessa rispetto a quanto avvenga in ambito musicale, si lavora spesso in team numerosi e multilingue, in cui i budget investiti sono alti così come le aspettative. Non basta solo essere creativi, è fondamentale avere anche delle altre skill da mettere al servizio del risultato concreto.
Ti piacerebbe esplorare maggiormente questo ambiente?
Assolutamente sì, perché è un ambito creativo nel quale la fotografia riveste un ruolo chiave. È interessante perché non si tratta solo di scattare dei vestiti che devono essere venduti, le persone che li concepiscono e che li indossano hanno il desiderio di esprimere le proprie idee e le proprie visioni. Le fotografie sono uno dei canali con cui è possibile farlo.
Scatti in analogico: come si è evoluta la tua attrezzatura nel corso del tempo?
La mia attrezzatura è tuttora in evoluzione, continuo ad acquistare nuova strumentazione per ampliare il mio corredo. Sono partito con il piccolo formato, inizialmente usavo delle point and shoot della Olympus e delle Reflex Nikon con un bellissimo corredo di ottiche fisse Nikkor, per poi passare al medio formato, prevalentemente in 6×6 con Hasselblad e talvolta in Pentax 67 o Mamiya 67. Negli ultimi tempi ho iniziato a scattare anche con il grande formato tramite un banco ottico Sinar.
Quali sono le tue macchine preferite?
Le macchine che preferisco sono più o meno le stesse che uso, a volte fantastico su macchine che non ho, ma ogni tanto riesco a levarmi lo sfizio noleggiandole. Penso che la serie 500 dell’Hasselblad sia una delle migliori strumentazioni fotografiche mai prodotte. Sono delle macchine fatte artigianalmente, di grande design e tecnologia, dotate di uno splendido corredo di ottiche. con queste sono state scattate fotografie bellissime che hanno plasmato l’immaginario di milioni di persone, come quelle dello sbarco sulla luna o la cover di Abbey Road dei Beatles. Fra l’altro nello stesso anno, il 1969.
Come si svolge una tua giornata tipo di lavoro? Come lavori sul set e come prepari uno shooting?
Non ho una vera e propria giornata lavorativa tipo, ogni progetto è diverso e personalmente non ritualizzo più di tanto le mie abitudini. Gli unici punti fermi nelle mie giornate di set sono lo sviluppo e le scansioni delle pellicole scattate, l’editing e la postproduzione. Sul set, in base alle necessità, lavoro con uno o due assistenti. è utile ai fini delle foto farsi aiutare e delegare alcuni aspetti logistici, o tecnici perché così è possibile dedicarsi unicamente agli scatti. Gli elementi da cui non prescindo mai sono musica e caffeina, entrambi ottima benzina per me. Inoltre, una parte importante del processo preparatorio, soprattutto per chi scatta in analogico come me, è la quantificazione numerica delle foto che andranno scattate, e quindi dei rullini necessari per realizzare il servizio. Non potendo disporre di una SD card infinita, sul set è necessario avere le idee molto chiare.
Quanto è importante per te ricevere input visivi quotidiani? Da dove trai ispirazione?
Ricevere input visivi, per una persona che crea immagini, è fondamentale. Attingo da qualsiasi fonte, dalle grafiche ai libri, passando per i film, i musicisti, i fotografi e le esposizioni. Mi appassiono ad un autore, mi “immergo” in esso, nelle sue opere, cerco ogni documentazione possibile e passo al prossimo.
Quali sono i tuoi “miti” tra i fotografi?
Sicuramente posso citare i fotografi che più mi hanno ispirato nella ricerca estetica, nella scelta delle macchine e nella gestione delle luci. Tra questi non possono mancare David Bailey, Helmut Newton, Mick Rock, Paolo Roversi e, per l’appunto, Richard Avedon.
Che piani hai per il futuro?
Mi piacerebbe trascorrere più tempo a Parigi, luogo a cui sono molto legato. Vorrei trasferirmi lì per un periodo, per avere la possibilità di esplorare nuovi percorsi.
Nella foto in alto: Theo Soyez
Theo Soyez su IG
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