GYOTAKU: IL MARE SULLA TELA
Nato nel XIX secolo tra i pescatori giapponesi come metodo per tenere traccia delle proprie prede, negli ultimi anni il gyotaku si sta affermando come mezzo di espressione artistica anche in Italia
di Marco Agustoni
«All’epoca lavoravo come restauratrice, ero sempre in trasferta. Però è nato mio figlio e mi sono dovuta un po’ riciclare, vendendo acquerelli e oggetti vari alle bancarelle, ma a dirla tutta andava malissimo. Poi un giorno c’era lì vicino un tipo che prendeva l’aperitivo e, tanto per provare, ho cercato di convincerlo a comprare un acquerello. Lui mi ha risposto di no, ma che se li avessi fatti, mi avrebbe comprato dei gyotaku, e io ovviamente non avevo idea di cosa fossero!». L’arrivo dei gyotaku in Italia, secondo il racconto di Elena Di Capita, artista e restauratrice di Lavagna, è avvenuto così, circa cinque anni fa, all’insegna della pura serendipità. Incuriosita dalla richiesta di quello che si è poi rivelato essere un appassionato di pesca, Elena ha cominciato a cimentarsi con questa tecnica pittorica giapponese, nata in realtà nel XIX secolo come strumento con cui i pescatori documentavano i frutti del proprio lavoro.
Con il tempo, questa pratica di “stampa dei pesci” si è trasformata in una vera e propria forma d’arte, basata su due principali metodi: quello diretto, in cui il soggetto viene inchiostrato, dopodiché la carta (spesso di riso) o la tela viene pressata su di esso, fino ad “assorbirne” l’immagine, e quello indiretto, in cui si fa aderire il supporto al pesce, dopodiché è il supporto stesso a essere inchiostrato con dei tamponi. In entrambi i casi, una volta terminata la stampa non vi è più alcun intervento dell’artista, se non, come spiega Elena di Capita, «per quei dettagli che altrimenti non comparirebbero, come ad esempio gli occhi dei pesci, oppure alcuni tentacoli delle meduse».
Da quell’incontro fortuito, l’artista lavagnese ha cominciato a cimentarsi con i primi gyotaku (il suo esordio, non propriamente fortunato, è stato con una trota), affinando la tecnica e riuscendo con la pratica a ritoccare sempre meno i suoi pesci. Ben presto, anche grazie ai social, è arrivato il successo, fin oltre le sue aspettative («Mi veniva un po’ da ridere, perché avevo cominciato per caso e mi sembrava tutto così semplice. Ma cercando un po’ in giro ho scoperto che in Italia non lo faceva nessun altro, e in effetti la gente continuava a fermarsi per chiedere di cosa si trattasse»), così Elena dalle bancarelle è riuscita a passare a uno studio privato in cui dedicarsi in pace alle sue opere.
Man mano che i suoi gyotaku cominciavano a girare, si moltiplicavano anche gli imitatori. Sin da subito, per distinguersi Elena ha deciso di imprimere una nota “locale” a questa forma artistica proveniente dall’altra parte del globo: «Ho cominciato a sviluppare il concetto dei banchi di acciughe… del resto qui in Liguria non potevo fare altrimenti!». Diventate un po’ il suo marchio di fabbrica, nelle opere di Elena Di Capita le acciughe vanno a creare le classiche “palle” in cui questi pesci si dispongono sott’acqua, oppure onde e altre forme evocative. Ma i suoi gyotaku ritraggono molte altre creature, come le già citate meduse, polpi, rane pescatrici, pesci spada. E anche prede più insolite, «come il pesce re, o lampris guttatus, un pesce molto colorato simile al pesce luna, davvero stupendo, che ho stampato l’anno scorso all’Università di Siena perché dovevano farci delle analisi, e siccome mi conoscevano mi hanno chiamato per lavorarci prima che lo aprissero. Lo squalo volpe, che sono molto difficili da stampare per come è fatta la loro pelle. O il pesce vipera, un pesce abissale recuperato dai ricercatori dell’Università di Genova».
Oltre che rivolgersi alle comuni pescherie, Elena si unisce anche alle cosiddette lampare di pescatori, che vanno a cercare pesci di notte attirandoli con delle luci. E, se c’è qualcosa di poco appetibile, ma interessante per il suo lavoro (tanto più è raro il pesce, quanto maggiore sarà tendenzialmente il valore del gyotaku con esso realizzato), ne approfitta. «Andare a fare le lampare è stupendo: c’è il mare tutto nero, il cielo tutto nero, in lontananza le luci della costa e poi le barchette con questo cono blu che va in profondità. E il pesce non lo vedi chiaramente, cogli solo questi scintillii veloci. Poi ogni tanto passano delfini, squali, mante…».
Grazie alla sua attività, Elena è entrata in contatto con altri artisti che, in giro per il mondo, realizzano gyotaku. Ma quelli che lo fanno come lavoro sono davvero pochi, mentre per molti rimane un semplice hobby. Nel frattempo prosegue nel suo percorso artistico, con un occhio rivolto alle gallerie e proposte di collaborazione dagli ambiti più svariati (di recente, tanto per fare un esempio, le è stata affidata la locandina del Festival della Scienza di Genova). E a chi storce il naso di fronte a quello che può apparire come uno spreco di cibo, lei assicura: «A parte esemplari troppo piccoli come le acciughe, per il resto i pesci utilizzati per i gyotaku, una volta puliti, si possono mangiare tranquillamente!».
Articolo pubblicato su WU 122 (novembre 2023)
Nella foto in alto: Elena al lavoro su un gyotaku
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