VAN ORTON – TRUE COLORS
Uno stile preciso e riconoscibile, fatto di colori e outline in nero, li ha resi riconoscibili e apprezzati su larga scala. Marco e Stefano hanno da poco raggiunto la doppia cifra negli anni di carriera, ma le idee su come continuare il loro percorso non mancano di certo
di Enrico S. Benincasa
Marco e Stefano sono di Rivoli, vicino Torino, e da 11 anni circa realizzano artwork e lavori grafici firmandosi Van Orton. Il nome è un omaggio a un film degli anni Ottanta, una decade che ha dato loro tante ispirazioni e idee a cominciare da quella per il poster-tributo a Ritorno al Futuro, primo sold out della loro carriera quando ancora non avevano che un profilo su Behance. Fratelli gemelli, nel lavoro si dividono i compiti e si cimentano in diversi ambiti, dai progetti per i brand agli artwork per artisti internazionali. Un loro pezzo lo riconosci da lontano, non manca mai il colore e colpisce l’uso che fanno della simmetria. Abbiamo chiesto a Stefano di riavvolgere un po’ il nastro dei ricordi e di raccontarci questi primi 11 anni, partendo dai momenti di svolta della loro storia.
Avete iniziato il vostro percorso come Van Orton nel 2013. Quali sono stati i momenti che vi hanno fatto capire che avevate preso la direzione giusta?
Ce ne sono stati diversi. Sicuramente il 2015 è stato un anno importante, che ci ha visto collaborare con Sisley e Fedez per una capsule di abbigliamento e con Jovanotti. Nel 2017, poi, sono iniziati ad arrivare i primi clienti di un certo spessore internazionale. Con la crescita del progetto sono arrivate anche le prime difficoltà di gestione, come per esempio dare il giusto valore al nostro lavoro. Ma sono cose che fanno parte del percorso.
L’apprezzamento dall’estero, sin dai primi poster, non è mai mancato…
Sì, c’è stato fin da subito. Tutto è nato senza un preciso intento, non è che ci siamo detti: «Adesso facciamo qualcosa per cambiare radicalmente la nostra vita». Non avevamo una pagina Instagram, ma avevamo un profilo Behance e abbiamo iniziato a caricare queste immagini create da Marco ispirate ad alcuni masterpiece degli anni Ottanta, tra cui Ritorno al Futuro. Da un giorno all’altro arrivarono mail di gente che voleva acquistarli e ci siamo messi a stamparli e a spedirli. L’entusiasmo era palese e ci ha dato una spinta fortissima.
Sin dagli esordi vi siete distinti per avere uno stile riconoscibile fatto di colori e geometrie…
Sì, siamo sempre stati riconoscibili e chi ci chiama vuole quello stile lì, fatto di colori e di outline in nero. Questa cosa ci fa piacere perché è venuta fuori genuinamente. Non siamo veramente illustratori, abbiamo un approccio da grafici. Col tempo ci siamo divisi i compiti nei progetti: prima tutti facevamo tutto, oggi Marco fa gli outline in nero e io seguo il discorso colore.
Quanto è difficile evolversi senza perdere la riconoscibilità, che è parte della vostra forza?
In questi dieci anni l’evoluzione c’è stata, sempre in modo naturale, magari non è subito visibile al grande pubblico o a chi non ha un occhio esperto. Il fatto della riconoscibilità, però, rimane una cosa che ci rende fieri e orgogliosi. Ogni tanto pensiamo a modificare qualcosa, ma non è una cosa semplice da mettere in pratica. Quando ci chiedono come si fa a trovare il proprio stile non sappiamo come rispondere, ognuno fa il suo percorso e il nostro non è frutto di pianificazione, è partito tutto da un’idea sviluppata un pomeriggio di 11 anni fa.
Avete lavorato con brand importanti e con tanti artisti del panorama musicale. A seconda del committente, il vostro approccio al lavoro è diverso?
La nostra impostazione del lavoro è la stessa. La cosa basilare è sempre il rapporto umano, che aiuta nella fase di progettazione e in quella del lavoro vero e proprio. Un progetto come quello per Colmar è ovviamente diverso che fare le grafiche per il palco di Bon Jovi. Alle volte hai brief dettagliati, alle volte hai più carta bianca come successo proprio con Colmar, ma il processo è sempre lo stesso.
Rimanendo in ambito musicale, vi è capitato di realizzare poster per diversi gruppi tra cui i Pearl Jam. Vi è mai capitato di confrontarvi con Jeff Ament, il bassista, anche lui grafico, su qualche idea o progetto?
Ci confrontiamo con il management dei Pearl Jam, ma ci hanno chiaramente detto che è direttamente Jeff ad approvare ogni singolo lavoro che riguarda la band. La poster art è un mondo che ci affascina da sempre e siamo molto contenti di poter lavorare in questo ambito. Spesso questi lavori vanno subito sold out, in particolare quelli dei Pearl Jam. C’è molta apertura creativa, non ci sono realmente brief o sono solo cose di poco conto, tipo i Blink 182 ci dissero che non volevano dei robot negli artwork. La libertà in questo mondo è massima, poi ci sono limiti tecnici perché i poster sono serigrafati e quindi ci si ferma a sei colori – che per noi è strano – ma al di là di questo aspetto hai tanta autonomia.
Dopo l’esperienza espositiva dell’anno scorso, pensate di riproporre qualcosa di più strutturato in futuro?
L’anno scorso abbiamo fatto una sorta di data zero di una mostra. È una cosa che ci hanno chiesto diverse volte nel corso di questi anni. Lo abbiamo fatto nelle Marche, a San Benedetto del Tronto, alla Palazzina Azzurra. Abbiamo sempre pensato che una mostra dei Van Orton non avrebbe dovuto contenere solo semplici stampe. A noi ci è sempre piaciuto, per via del colore, usare la retroilluminazione. Il contrasto tra i nostri lavori e la Palazzina Azzurra, un luogo così diverso, è stato molto interessante. È stato un esperimento per capire cosa potesse funzionare e cosa no. In generale pensare a un progetto espositivo richiede tempo, ma non è detto che non si faccia qualcosa in Italia o all’estero nel prossimo futuro.
Chi acquista le cose di Van Orton Design? Chi è, insomma, il vostro pubblico?
Abbiamo toccato talmente tanti settori negli anni e oggi abbiamo un pubblico molto vario. Tanti sono nostri coetanei e che sono partiti insieme a noi, ma toccando moda, musica e sport siamo arrivati a più fasce di pubblico, al di là dei riferimenti culturali di alcuni nostri lavori. Oggi direi che il nostro pubblico va dai 18/20 anni in su.
Le grafiche per Bon Jovi sono il lavoro più complesso che avete fatto?
Non è stato complesso per la realizzazione in sé, ma per le tempistiche. Ci hanno dato una settimana per fare tutti i visual per una canzone, ma tecnicamente lavorando in digitale la grandezza (i visual erano per un palco di circa 80 metri, NdR) non era un fattore percepibile. Certamente applicare le grafiche a una giacca tecnica, come quando abbiamo realizzato la capsule per Colmar, è stato più complesso. Il lavoro per Bon Jovi, però, lo abbiamo visto dal vivo ed è stata una soddisfazione incredibile. Abbiamo fatto tante cose in questi anni, ma quando vivi un’emozione così per un lavoro che hai fatto è sempre qualcosa di speciale.
C’è qualcosa che non avete ancora realizzato e che vi piacerebbe fare?
Il nostro stile è applicabile a tanti ambiti e negli anni abbiamo avuto la possibilità di cimentarci in settori diversi. Non abbiamo però ancora fatto nulla di rilevante con le sneakers. Non ci sono mai state occasioni reali e ci piacerebbe poter sperimentare in questo campo.
Nella foto in alto: i Van Orton
Intervista pubblicata su WU 127 (settembre 2024)
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