VAI THAI
Amabilmente piccante, piacevolmente acida, dagli inaspettati risvolti speziati e dolciastri, mai stucchevoli. Sensuale ed elegante, di certo non semplice, la cucina thai rivela un intreccio di sapori che appassiona gli amanti del piacere (a tavola) più sofisticato
di Ida Papandrea
Non si vive per mangiare. Tranne, probabilmente, che in Thailandia. Non per niente è conosciuta come “la cucina del mondo”. Qui, dove lo street food regna sovrano, al punto che, vuole la leggenda, sia impossibile conoscerne tutte le varietà (figurarsi sperimentarle), non c’è angolo di strada che non conti un baracchino, un tavolino, una padella intenta a friggere (l’altissima temperatura è la modalità di cottura più diffusa, per evitare infezioni dovute all’esposizione all’aria e prevenire il deterioramento dei cibi) le specialità più varie.
Dal dolce al salato, bocconi che vanno dalla materia prima comune ai cibi più insoliti e stravaganti, davvero si potrebbe pensare di passare la vita assaggiando. Ma la Thailandia non è solo street food. Sebbene questa sia la sua immagine più stereotipata, le sue mille specialità sono tutt’altro che “semplici” e questo per una serie di motivi, sia naturali sia culturali. Quando si parla di cucina il Paese delle orchidee vanta privilegi probabilmente unici al mondo: una grandissima ricchezza produttiva, che si traduce in altrettanta opulenza gastronomica, unita al gusto tutto orientale per i dettagli e la cura nella composizione estetica e intrinseca del piatto, fanno della fine thai cuisine una cucina realmente alta, complessa, tra le più sofisticate a livello mondiale. L’utilizzo a piene mani di erbe aromatiche, spezie e vegetali garantisce infinite risorse in grado di generare mix ricchi di sorprese.
Piccante, dolce, salato, amaro: secondo i principi fondamentali della tradizione, ogni piatto deve contenere i quattro sapori ed essi devono alternarsi, fondersi, bilanciarsi ad arte, in un continuo oscillare di piacevoli sensazioni al palato. Una missione non facile: ed è per questo che, quando arriva in Occidente, la cucina gourmet thai si traduce esclusivamente in ristoranti esclusivi, capitanati da chef di primo rango, in grado da rendere appieno giustizia a una delle esperienze gastronomiche più interessanti, avvolgenti, sensuali. Il livello si mantiene rigorosamente alto: questo perché, a differenza di altre cucine, per mantenere gli standard degli autentici sapori thai si è mosso addirittura un organo del Governo.
Il Thai Select Logo, creato dal Dipartimento della Promozione Commercio Internazionale, è lo stemma che certifica gli alti standard qualitativi e l’autenticità della cucina proposta dai ristoranti al di fuori della nazione. Assegnato da una vera e propria commissione di esperti, che si reca sul posto con il compito di assaggiare 29 ricette tipiche, anche se non presenti in menu, e di attestarne la validità. Tra questi, gli immancabili e i più celebri come il Pad Thai, noodles con gamberi e diversi tipi di verdure, il pollo in salsa Satay, la Tom Yum, corroborante zuppa i cui ingredienti base, secondo la tradizione, avrebbero proprietà benefiche. Basta cercare il logo per assicurarsi di gustare sapori non in azionati né edulcorati. Quando non sono proprio gli chef a calcare la mano sulla necessità di restare autentici, con esiti a volte paradossali. Come nel caso di David Thompson, australiano di origine, thailandese di adozione, primo chef ad aver innalzato in Occidente la cucina thai a ranghi elevati che, dopo il successo del suo Nahm a Londra, primo ed unico ristorante stellato di thai food, ha chiuso baracca e burattini per riaprire a Bangkok. Tutto questo per assicurarsi la reperibilità della materia prima e inseguire rigorosamente la tradizione, scongiurandone ogni snaturamento.
Senza arrivare a questi eccessi, anche il nostro Paese vanta fine thai restaurant di tutto rispetto e garantiti, dal milanese Thai Square all’Elefante Bianco in provincia di Carrara, fino ad arrivare alle suggestioni di un posto come il romano Le Asiatique, che azzarda con raffinatezza un approccio fusion che rispetta con garbo i rigorosi valori della cucina orientale. Un trend che, se nel resto del Vecchio Continente ha iniziato a diffondersi nei lontani anni Sessanta, in Italia è scoperta recente: prova ne è La Rinascente di Piazza Duomo a Milano, che ha ospitato nei mesi di maggio e giugno un corner dedicato a Patara, serie di ristoranti sinonimo di fine thai cuisine. Il primo è stato aperto a Londra nel 1990, a cui hanno fatto seguito altri cinque punti in città. Oggi conta ristoranti a Pechino, Ginevra, Singapore e Vienna. La sua fondatrice, Khun Patara Sila–On, viene considerata di diritto pioniera e ambasciatrice dell’alta ristorazione thai nel mondo. Ma patara, in questa lingua, è (neanche a farlo apposta), il nome con cui vengono designate le donne gentili che si occupano con affetto di famiglia e amici. E, per chiudere il cerchio, secondo la tradizione sono rigorosamente le patara a formare il personale dei ristoranti thai di un certo rango. Altre regole inaspettate da tenere a mente: non toccare il riso con la forchetta e nemmeno con le bacchette, per questa pietanza va usato solo il cucchiaio, e aspettare che siano stati serviti tutti prima di iniziare a mangiare. Contrariamente alla tradizione giapponese e cinese, dove i rumori di suzione e masticazione vengono considerati segno di apprezzamento, mangiare in silenzio. E infine, Kor hai mue nee pen mue arhan tee aroi na!, che vuol dire semplicemente buon appetito. Decisamente, quando si tratta di cucina, la semplicità non appartiene ai thailandesi.
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