THE SHAPE OF WATER È UN INNO ALLA DIVERSITÀ
Guillermo Del Toro mescola generi e cliché, realtà e fantasia, finendo per confezionare una pellicola che è un omaggio al cinema e una parabola sull’accettazione
di Gaetano Moraca
Baltimora, anni Sessanta. Elisa Esposito (Sally Hawkins) è una trovatella senza voce che si sveglia ogni giorno prima del sorgere del sole: mette a bollire le uova, si fa un bagno caldo, si masturba, lucida le scarpe, si veste con cura e fa colazione. Prima di uscire di casa porta da mangiare al suo vicino con cui condivide la passione per i musical, un gay attempato, sempre pronto a indossare un toupet e circondato da gatti, a cui i nuovi media hanno sottratto il lavoro di disegnatore pubblicitario. I loro appartamenti si trovano sopra un cinema che proietta kolossal biblici, ormai svuotato dal boom della tv. Nel buio della città appena alzata Elisa raggiunge con l’autobus la centrale dove lavora come addetta delle pulizie. Scienziati e membri del governo fanno ricerche ed esperimenti mentre le spie russe sono in agguato per sottrargliele (è la Guerra Fredda, baby!). Con la collega e amica Zelda (la spumeggiante Octavia Spencer), che in più occasioni le fa da corde vocali, condivide la sua giornata lavorativa.
Fino a questo punto del film – per richiami, musiche (le originali di Desplat e quelle di Andy Williams, Ella Fitzgerald, Nat King Cole, ecc.) e inquadrature – abbiamo l’impressione di trovarci nel meraviglioso mondo di Amelie o in un musical. E ci stiamo benissimo, grazie anche alla superba fotografia del danese Dan Laustsen. Ma poi succede qualcosa di imprevisto, i generi si mescolano, e ne vien fuori qualcosa di assolutamente indefinibile. Così com’è lo strano essere, metà uomo metà pesce, che emerge da una vasca del laboratorio e cattura l’attenzione di Elisa, la quale scopre di riuscire a comunicarci attraverso il linguaggio dei segni. Ne nasce così una stramba frequentazione e vien fuori che la donna muta e l’uomo anfibio s’innamorano. Come in tutte le fiabe che si rispettino il cattivo di turno, il colonnello Strickland (Michael Shannon) – razzista, machista e violento, autore della cattura del mostro – interviene a rompere l’equilibrio: decide infatti di uccidere l’essere perché inutile. La giovane convince il suo bizzarro vicino di casa ad aiutarla a rapire il mostro per trasferirlo nella sua vasca da bagno. Dalla commedia romantica ci troviamo così immersi in un thriller di spionaggio che si conclude coi toni da fiaba à La Bella e la Bestia. Il colpo va a segno, Elisa e il mostro vivono una sorta di luna di miele romantica in casa di lei, nell’attesa di un giorno di pioggia per liberare il mostro in mare. Ma il cattivo è sulle loro tracce: ci sono dei colpi di pistola, c’è chi muore, c’è chi guarisce e c’è chi scompare per sempre negli abissi più profondi.
Il turchese che richiama l’acqua accompagna molte scene del film e si staglia su un’America dipinta a tinte fosche in cui, nonostante Kennedy, i neri puliscono i cessi, i gay vengono allontanati dai locali e la famiglia tradizionale (bianca!) prevede moglie dai capelli in ordine e Cadillac. Nella società dei consumi i protagonisti de La forma dell’acqua sono in fondo dei corpi estranei, anche se non posseggono branchie. Guillermo Del Toro, non nuovo a questo approccio, cela dietro la fantasia la critica sociale, dando sfogo a quell’immaginazione che ha sviluppato per sfuggire alle regole ultraconservatrici e bigotte della nonna con cui è cresciuto in Messico. L’elemento “lagunare” è una costante di questo film, sia per la dichiarata citazione de Il mostro della laguna nera, sia per il Leone d’Oro che la pellicola ha vinto proprio a Venezia e che gli permette di galoppare verso gli Oscar del 4 marzo, forte delle sue 13 candidature (tra cui miglior film e regia). Sally Hawkins, senza bisogno di parlare, riesce a guadagnarsi una nomination come migliore attrice protagonista per bravura e sensibilità, facendoci uscire dalla sala con gli occhi lucidi e più inclini ad accettare la diversità.
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