JON HOPKINS – DALLA TECHNO ALLA MEDITAZIONE
Tutto è iniziato con un post su Facebook, in cui ha dichiarato: «I’m so happy to share some brand new music with you». Dopo cinque anni dal precedente Immunity, arriva un nuovo inaspettato ed esaltante disco per Domino Records. Si intitola Singularity e il 30 giugno lo sentirete sul palco dell’Astro Festival a Milano
di Simona Ventrella
Il musicista e produttore inglese Jon Hopkins è finalmente pronto per tornare a solcare i palchi europei con un nuovo disco. Un progetto carico di aspettative, che rimescola gli equilibri e aggiunge un nuovo tassello alla sua già esaltante carriera. Un’evoluzione nello stile e nei suoni che sposta il baricentro dalla techno più cupa e introversa verso territori melodici carichi di luce e vibrazioni positive. In un grigio pomeriggio milanese, abbiamo incontrato Jon Hopkins nella hall del Principe di Savoia e, seduti su comode poltroncine di velluto, abbiamo provato a indagare insieme a lui le esigenze e le peculiarità di questa nuova avventura musicale, spaziando dalla meditazione trascendentale alle influenze musicali.
Sono passati cinque anni da Immunity e hai annunciato Singularity con un video animato e un post su Facebook. Come ti relazioni ai social network? Hanno davvero cambiato le modalità con cui promuovi le tue nuove uscite?
Volevo che l’annuncio del mio disco venisse da me personalmente e Facebook è certamente uno strumento per raggiungere velocemente e direttamente i propri fan. I social sono diventati strumenti profondamente radicati nella società e nella cultura, ma il singolo è stato comunque lanciato anche sulle radio e sui media più tradizionali.
Guardando la copertina dell’album si vede un orizzonte, un cielo stellato, nel complesso un’immagine che rimanda al mondo della meditazione. È una disciplina che pratichi? C’è un legame con questo disco?
Sì, ho iniziato a praticarla nel 2001 e tre anni fa ho cominciato ad approfondire la meditazione trascendentale, una pratica facile e con molti effetti positivi. Meditare sblocca la creatività ed è uno strumento che ti consente di trasportare il materiale del subconscio dentro la musica. Detto ciò però, l’album non parla di questa mia esperienza, anche se la seconda parte del disco è senz’altro più meditativa rispetto alla prima, che considero più “attiva”.
Il suono è molto diverso rispetto ai precedenti dischi. Insides era solare, Immunity più oscuro, Singularity è invece potente, ma allo stesso tempo meno cupo e più pulito.
Volevo fare qualcosa di diverso rispetto al passato e non ripetere quel suono aggressivo, melanconico e a tratti claustrofobico del mio precedente lavoro. Se guardi la copertina di Immunity vedi il dettaglio al microscopio di un cristallo, qui invece abbiamo un’apertura, un enorme cielo stellato. Questo album ha una prospettiva completamente differente, meno personale e più allargata.
Ascoltando per intero l’album si ha la percezione di un flusso sonoro, che all’inizio cresce in maniera forte per poi riscendere verso dinamiche e atmosfere rilassate. Hai immaginato Singularity come un unico flusso o hai composto i brani singolarmente per poi pensare a una sequenza logica per la tracklist?
Il flusso generale è molto importante per me. Otto mesi prima di finire il disco avevo già in mente il percorso che i brani avrebbero dovuto far fare all’ascoltatore e ho scritto i pezzi mancanti in base a questa idea. Per esempio, il primo brano Singularity è il più aggressivo e ti porta subito in qualcosa di forte e distorto, poi arriva Emerald Rush che scompagina tutto. Amo il modo in cui questi pezzi sono in contrasto e l’effetto che creano tra di loro. In generale il concept è quello di un percorso personale che inizia da una regressione, per andare verso la purificazione di se stesso. Mi piace molto la simmetria all’interno del disco, potresti ascoltarlo dall’inizio alla ne e viceversa senza alcun problema.
Ci sono due canzoni che spezzano gli equilibri generali e sono Neon Pattern Drum ed Echo Dissolve. Ci dici qualcosa su questi due brani?
Echo Dissolve è come Emerald Rush: è molto meditativa, hanno la stessa tipologia di apertura e suoni, sono la stessa idea di musica. Neon Pattern Drum è qualcosa di particolare ed eclettico per me, che mi ha portato a esplorare nuove tecniche di produzione del suono, con un risultato molto connesso e coeso.
Sei un produttore di talento, se dovessi dare un consiglio a un giovane cosa gli diresti?
Beh, le cose sono cambiate molto da quando ho mosso i miei primi passi. Avevo vent’anni e sono stato fortunato ad avere un’etichetta e persone che hanno creduto in me. Oggi a un esordiente direi di ignorare le tendenze e creare la propria musica, di rimanere “integro” nei confronti della propria idea, di essere pronto a fare la gavetta e di avere pazienza. La cosa più difficile, comunque, è trovare il modo di finanziarsi e sostenersi.
Parliamo del live. Come prepari le tue setlist? Sei solito studiare un set ben definito e suonarlo senza cambiamenti o tendi ad adattare la perfomance live alle reazioni del pubblico?
Parto sempre da un piano ben definito, che inizio a preparare molti mesi prima, ma poi inevitabilmente questo piano cambia in corso d’opera in base alle risposte che ottengo durante i live. È sempre l’esperienza sul palco che decide cosa funziona bene e cosa no.
Il pubblico più pazzo in assoluto?
Penso di averlo trovato a Sidney: le persone erano maledettamente prese dal divertimento, ballavano e facevano crowdsurfing. Anche in Italia ho sempre trovato un bel pubblico, la cosa mi piace molto perché c’è tanto entusiasmo e per me è sempre un piacere esibirmi qui.
Riesci anche a individuare il peggiore?
Nel 2008 ho fatto da supporto ai Coldplay a Birmingham e il pubblico non mi accolse per nulla bene, urlandomi dietro cose poco piacevoli.
Come si prepara Jon Hopkins prima di un live?
Pratico tecniche di respirazione profonda e alcuni esercizi di meditazione. Mi concedo solo una birra prima di salire sul palco… Dopo, invece, sono pronto per concedermene qualche centinaio (ride, NdR).
L’Intervista a Jon Hopkins è stata pubblicata su WU 87 (aprile 2018). La foto di Jon Hopkins in apertura è di Steve Gullick. Segui Simona su Facebook.