THE COFFIN CLUB – TUTTI PAZZI PER LA MORTE
In Nuova Zelanda un gruppo di anziani un po’ ribelli ha deciso di affrontare uno dei più grandi tabù occidentali personalizzando nei loro Coffin Club le bare dove verranno seppelliti . Sta iniziando a prendere piede un movimento di death empowerment?
di Carolina Saporiti
C’è chi la vuole decorata con i glitter, chi vuole coprirne una parte con un poster di Elvis Presley e chi vuole metterci dentro foto di galline. No, non sono le richieste di stravaganti teenager per gli arredi delle loro camere o per il tema delle loro feste di compleanno. È come alcune persone anziane, nei loro Coffin Club, hanno scelto di personalizzare le bare. Quelle di quando saranno morti.
In Nuova Zelanda, in una città chiamata Routura, ogni mercoledì dalle otto del mattino all’una del pomeriggio 50-60 iscritti (tutti pensionati, of course) si ritrovano per preparare e decorare la propria bara. Macabro? Tutt’altro! Una regista di documentari neozelandese, Briar March, quando ha scoperto i Coffin Club ha capito subito di dover raccontare la loro storia. E lo ha fatto con un docu-musical intitolato appunto The Coffin Club in cui recitano sia attori professionisti sia anziani appartenenti al club: «Mischiare due generi cinematografici rispecchia quello che fanno queste persone: celebrare la morte, un argomento tabù».
Sì, perché nella società occidentale è ancora difficile affrontare pubblicamente questo tema. C’è chi è superstizioso e non vuole parlarne, chi ritiene sconveniente solo che venga pronunciata la parola e quindi usa metafore, perifrasi, o ancora chi crede che contravvenga al galateo. Ma soprattutto la morte ci fa paura. Quella degli altri perché ci fa perdere affetti e punti di riferimento, la nostra perché ci rende consapevoli che non siamo supereroi e che un giorno verremo dimenticati da tutti. Il Cristianesimo ha una festa, il Giorno dei Morti il 2 novembre, che serve a questo: mantenere la memoria dei defunti, ma ciò non toglie la paura, anzi è orientata a ricordarci la nostra caducità.
Non è così dappertutto. In un’isola remota dell’Indonesia, chiamata Sulawesi, le famiglie non si staccano mai dai morti. Anzi, per i primi quattro giorni li tengono in casa, mummificati, gli parlano, gli servono i pasti – quattro al giorno – e li abbracciano. Dopo i corpi vengono messi in una bara che rimane per altri quattro mesi in famiglia, fino al giorno del funerale. Ma anche dopo la funzione religiosa, lo spirito rimane a vivere in casa con la famiglia.
I Coffin Club neozelandesi sono un modo di fare socialità, di rendere più personali i funerali troppo spesso così impersonali, ma anche e soprattutto di confrontarsi con la propria mortalità, prendendone atto, accettandola e “controllandola” quel poco che si può. «Il movimento delle bare DIY mi ricorda quello delle nascite degli anni Settanta – dice Briar – c’è stato un momento storico in cui le persone si sono svegliate e hanno deciso, o meglio hanno capito, che le donne avevano il diritto di avere il controllo delle nascite. Oggi mi sembra che si stia formando un movimento simile intorno al tema della morte». Della serie, la morte è mia e decido solamente io come ci voglio arrivare.
Pensare che le persone siano già pronte a parlare di morte al bar è presto, d’altra parte però l’ultimo film della Disney (Pixar a dire il vero, ma noi siamo nostalgici) è incentrato sulla morte. Coco, ambientato in Messico dove il Dia de los Muertos è un affare serio, parla della cosiddetta “morte finale”. Secondo la concezione messicana ci sono tre morti: la prima è quella fisica che avviene quando il nostro cuore smette di battere, la seconda quando il corpo viene sepolto e torna alla terra, immettendosi nuovamente nel ciclo vitale del Pianeta e la terza, quella finale, avviene quando nessuno si ricorda più di quella persona. Ma la morte in Messico non fa paura, perché è semplicemente una transizione: il mondo dei morti non è legato a nessuna punizione, né alla resurrezione dei corpi e ogni anno, nel Dia de los Muertos i morti tornano nel mondo dei vivi per ritrovare i parenti e gli amici. È anche questa una credenza religiosa, certo, ma esiste una differenza sostanziale nel modo in cui la ne della vita viene percepita e vissuta.
A chi di noi verrebbe in mente addirittura di celebrarla? A Katie Williams, la fondatrice del primo Coffin Club di Routura. Ex infermiera prima e casalinga poi, ha visto così tanti funerali di amici tutti uguali tra loro da decidere di voler qualcosa di diverso per sé. «Tutti dobbiamo morire, no? Io ero spaventata, ma ora che sono circondata da persone che mi vogliono bene non ho più paura», racconta.
A giudicare dal trailer, The Coffin Club è insieme divertente, provocatorio e anche commovente, forse perché la nostra avversione culturale ad abbracciare la morte unita alla propensione a catologare le emozioni forti in compartimenti stagni, mostrano una difficoltà a sostenere sentimenti forti e conflittuali. Ma forse qualcosa sta cambiando e, tra qualche anno, sentire giovani parlare di come vogliono il loro funerale non sarà poi così strano.
Articolo pubblicato su WU 87 (aprile 2017). Segui Carolina su Facebook.
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