LA MIA VITA CON JOHN F. DONOVAN, SCORDATEVI IL SOLITO DOLAN
L’ultimo film del regista canadese Xavier Dolan si è attirato molte stroncature, ma non è quella catastrofe di cui in tanti hanno parlato
di Gaetano Moraca
Si è fatto un gran parlare de La mia vita con John F. Donovan, ultimo film di Xavier Dolan – di quanto fosse stato stroncato al Festival di Toronto, dei rimaneggiamenti e tagli che ha subito dopo quel disastroso passaggio, dei problemi in Italia con la distribuzione (Lucky Red lo aveva annunciato per marzo e poi lo ha fatto slittare a fine giugno 2019, forse per colmare il vuoto nel cuore dei fan di Jon Snow vista la presenza di Kit Harington) – che ci si aspettava un disastro clamoroso, il piede in fallo dell’enfant prodige canadese.
C’è da dire che dopo aver rasentato la perfezione con Mommy nel 2015 e aver camminato sull’orlo del precipizio con Juste la fin du monde nel 2016, era quanto meno lecito aspettarsi uno scivolone. O almeno un accenno di scivolone. Però parlare di catastrofe rispetto al primo lungometraggio in lingua inglese di Xavier Dolan appare davvero eccessivo. La trama è ormai arcinota: un ragazzino aspirante attore (uno straordinario Jacob Tremblay) di nascosto dalla madre (Natalie Portman) – alla quale è legato da un rapporto di amore-odio (in Dolan, chi lo avrebbe mai detto?) – intrattiene per molti anni una fitta corrispondenza epistolare col protagonista della sua serie tv preferita, John F. Donovan appunto (Kit Harington, che ha lo sguardo spento di Jon Snow); quest’ultimo all’apice del successo, omosessuale in incognito, con un passato di disagio mentale e famigliare (la madre alcolizzata è la splendida Susan Sarandon), si confida col bambino quasi fosse un suo pari, confessandogli paure, frustrazioni e speranze. La venuta allo scoperto di queste lettere coincide col punto di non ritorno della carriera e della vita di Donovan, mollato dalla sua manager (l’ottima Kathy Bates), dai suoi affetti, dai suoi colleghi, ma non dal piccolo Rupert che continua a scrivergli perché lo ammira e spera di lavorare un giorno affianco a lui.
Il cast stellare di La mia vita con John F. Donovan, la scelta musicale piuttosto dozzinale (basta Adele, per quanto da queste parti la si apprezzi molto), alcune scene dal pathos facile (l’abbraccio sotto la pioggia di madre e figlio sulle note di Stand by me nella versione di Florence and The machine), rischiano di apparire come una captatio benevolentiae nei confronti del grande pubblico, magari meno avvezzo ai film di Dolan. Eppure non mancano i topoi cari alla poetica del giovane di Montréal (omosessualità dichiarata o celata, rapporto turbolento madre-figlio, instabilità psichica, spiccato autobiografismo – anche lui inviava lettere a Leonardo DiCaprio), così come la storia tutto sommato ha una buona tenuta.
E allora cos’è che tanto ha destabilizzato de La mia vita con John F. Donovan? Un’assoluta novità nella filmografia dolaniana: l’ingresso di personaggi affatto positivi, di eroi buoni, di scene edificanti come in un qualunque film di Muccino con Will Smith, a cui i fan della prima ora non erano per niente abituati (e che forse non ricercano nei suoi film). Dalla professoressa che prende a cuore la situazione familiare del giovane Rupert, alla manager che fa un bellissimo monologo su quanto essere onesti con se stessi renda liberi, fino alla giornalista che intervista il Rupert adulto che, da scettica e annoiata, si affeziona al racconto di quel giovanotto esuberante. Però basta mettere una vasca da bagno colma di schiuma, Donovan dentro mezzo nudo che assicura alla madre di stare bene, e lei che gli dice: «Devi essere solo te stesso», e il fratello (anche lui nel bagno) che alza il volume della radio e inizia a cantare Hanging by a moment dei Lifehouse insieme a John, sotto lo sguardo dolce della genitrice, per perdonare a Dolan qualsiasi cosa (a maggior ragione perché di Mathias e Maxine, suo ultimo lavoro presentato qualche mese fa a Cannes, si parla come di un ritorno a casa).
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