CED PAKUSEVSKIJ – USCIAMO DAL TEMPLATE
Art director e regista, ha esplorato le possibilità creative del video per broadcast e aziende di moda italiane e internazionali vincendo numerosi Promax, gli Oscar di questo settore. Non insegue i like sui social e cerca di fare prodotti originali che non siano solo pura estetica
di Enrico S. Benincasa
Non fatevi ingannare dal nome, Ced Pakusevskij conosce bene il mondo della creatività italiana. È nato in Serbia, a Novi Sad, ma ha studiato in Italia e lavorato per broadcast come Sky e Mtv. Da qui se n’è andato per qualche tempo con destinazione Los Angeles, ma è tornato nel 2010 per aprire il suo studio che ha chiamato Fullscream. Lo ha fatto per mettersi in gioco, è stata «una forma di reazione contro quel gusto fine e quasi barocco che c’era in giro nel design e nella grafica. Il design deve essere anche diretto, dinamico, duro», ci ha detto. Ced non parla per frasi fatte e recentemente ha scritto un testo, “Likes”, dove dice la sua sul momento della creatività in quest’epoca dominata dal consenso sui social. Ne abbiamo parlato con lui, facendo un po’ il punto su quello che succede anche nel mercato italiano.
Come ti definiresti oggi dal punto di vista lavorativo?
Sono un regista e un art director che lavora con il video e crea prodotti per società operanti nel broadcast, nella moda e in altri settori. Non sono però un video artist, faccio video creativi. Lavoro con diverse tecniche tra cui il motion design, ma visto che spesso c’è molta confusione quando si entra nel dettaglio preferisco dire che faccio video, così capiscono tutti (ride, NdR).
Che tipo di prodotti ti chiedono?
Non guardo tanto cosa va oggi, cerco di fare le mie cose. Ogni prodotto che esce da mio studio, che sia video o altro, deve avere una componente narrativa e una visiva, non ci si può limitare solo alla mera estetica. In giro vedo pero tante repliche di idee che in un primo momento funzionano, ma alla lunga stancano e sono poco creative.
Questo tendenza a replicare su scala da cosa dipende? Dalla fretta di ottenere risultati?
Sì, ma non solo. Una delle domande che mi viene maggiormente rivolta da clienti è: «Hai qualche progetto adattabile nel cassetto?». Nel mio lavoro non funziona così, le proposte che ho fatto per un pitch non vanno bene per un altro. Qualunque professionista serio ti risponderebbe la stessa cosa.
Ci si sente un po’ tutti art director oggi?
Il mondo della comunicazione è molto complesso, ci sono interlocutori diversi a seconda dei settori. Trovi realtà strutturate, dove ti devi interfacciare con dipartimenti digital e marketing e realtà più familiari, dove il proprietario o il CEO dell’azienda è il tuo punto di riferimento. Quest’ultimo caso capita spesso nel mondo la moda. La qualità del tuo lavoro, comunque, dipende anche da quella del tuo cliente: se non è competente, diventa tutto più difficile.
Dove si trova più competenza?
In Italia in tutti i più grandi broadcast lavorano persone capaci. Nelle agenzie pubblicitarie a volte può capitare di trovare meno competenza, dipende dal background individuale. Nella moda, invece, la situazione è molto eterogenea.
A che livello di creatività siamo per quel che riguarda la pubblicità?
Il livello di creatività della pubblicità prodotta in Italia, per il video in particolare, è basso. Penso che in tanti Paesi europei sia superiore. La cosa paradossale è che ci sono tanti brand con un potenziale dietro con i quali si potrebbero creare progetti bellissimi. Eppure c’è una grande tradizione: se penso a cosa hanno fatto Bozzetto e Armando Testa, mi chiedo dove si sia creato il punto di arresto. Spesso mi sembra di vedere ripetizioni di template sia dal punto di vista visivo sia da quello narrativo.
Siamo “schiavi”, come hai scritto in un tuo testo critico, della dittatura del like?
Sì, come dicevo se qualcosa funziona c’è la corsa a copiarla perché tecnicamente, grazie alla possibilità di autoformazione che offre la rete – c’è un corso online su tutto – siamo in grado di farlo. Sono curioso di vedere dove porterà questo momento. Un designer deve avere fondamenta teoriche e conoscere anche quello che è successo prima per avere la propria visione e questo oggi manca.
C’è ancora spazio per creare prodotti di design che abbiano la forza di diventare iconici e durare nel tempo?
Difficile rispondere, il mercato consuma tutto molto più in fretta. Oggi forse questo spazio non c’è.
Nella tua carriera hai vinto diversi Promax, gli Oscar della creatività legata al mondo dei media. Premi come questo, dove non si misura tutto in like e view, sono la forma più sincera di valutazione di un prodotto creativo?
In tutti i campi, specialmente in questo, tutti vogliono aprire il mercato e cercano il consenso del grande pubblico, quello che in genere ha poca educazione visiva ma che genera “like”, appunto. Quando istituzioni di questo tipo ti assegnano un premio, con una giuria che ha visto di tutto, per me c’è un valore diverso da un post con migliaia di like. È una cosa che ti dà la forza di andare avanti in quello che stai facendo, senza piegarsi a seguire i trend.
(intervista pubblicata su WU 82 – ottobre 2017)
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