MGMT – LA NOSTRA LITTLE DARK AGE
Gli MGMT sono tornati con un album dal sapore Eighties, che racconta e prende in giro le manie del nostro presente ma che, soprattutto, ci fa dire: «Rieccoli, finalmente!». In attesa di vederli il 17 luglio in concerto insieme ai Justice, ci siamo fatti condurre per mano dentro il loro piccolo ma oscuro mondo
di Carlotta Sisti
Gli MGMT conoscono fin troppo bene il rancore di chi non ti perdona il successo. Al duo newyorkese formato da Andrew VanWyngarden e Ben Goldwasser è accaduto, infatti, di diventare delle rockstar (ma forse è più esatto dire delle popstar) per pura casualità. E questo, negli USA che guardano al sogno americano come qualcosa da raggiungere a ogni costo, con ogni mezzo e sacrificio, è un peccato mortale. Ma tant’è, perché in quel 2007 musicalmente effervescente, tra zampilli new rave e scalpitio indie rock, il loro disco d’esordio Oracular Spectacular ha conquistato cuore e testa dell’appena nato popolo dei Millennial. Che ne fece letteralmente la sua fluorescente bandiera, eleggendo gli MGMT a icone giocose, autoironiche e un po’ folli. A distanza di più di dieci anni da un debutto così folgorante, e con in mezzo due lavori abbastanza massacrati dalla critica, VanWyngarden e Goldwasser sono tornati per farci impazzire. Il loro nuovo Little Dark Age sposta, infatti, lo sguardo dall’immaginario colorato ai cieli plumbei e ai timori neo gotici di oggi, ma lo fa con una narrazione più tagliente e diretta, che racconta di voyeurismo digitale, di like for like, di bitcoin e del sexting senza sconti. Gli MGMT, insomma, sono sempre dei portavoce della loro epoca, ma stavolta discorrono insieme a noi, invece di urlarci nelle orecchie, e, in attesa di vederli dal vivo il 17 luglio al Milano Summer Festival, ci siamo fatti raccontare proprio da Andrew che faccia ha questa sì buia, ma per fortuna anche breve era che stiamo vivendo.
Andrew, spiegami meglio in che senso siete diventati rockstar per sbaglio.
Beh, potrei quasi definirlo un incidente, tanto per usare un termine dal sapore drammatico. Però la verità è che nel 2007 io e Ben suonavamo per i nostri amici del college, senza sognare di sfondare nel mondo della musica e, quindi, senza sforzarci per far conoscere le nostre canzoni al di fuori di quel microcosmo. Anzi, a dirla tutta i testi dei nostri pezzi oggi più famosi come Time to Pretend sono una presa in giro delle manie e dei modi di fare tipici delle rockstar. Tutto pensavamo tranne che di diventarlo a nostra volta. Non sai quante persone ci hanno odiato per questa cosa.
Ma oggi a cosa si deve invece un titolo come Little Dark Age?
A un mucchio di cose che fanno parte dell’attualità, tutte però raccontate sì senza senza filtri, ma senza abbandonare la leggerezza dell’ironia, della presa in giro. Little Dark Age vuole parlare delle nostre ossessioni moderne, dal telefono alla palestra, ma in tono parodistico, non drammatico.
Che cosa ti turba di più in questa epoca buia?
La dipendenza dagli smartphone. Questi dispositivi stanno generando una forma di alienazione per la quale ognuno fa cose folli, insensate o stupide, come fotografare un piatto ancor prima di capire che sapore abbia, solo per far progredire il suo status sociale. Spesso mi pento di tutto il tempo prezioso che butto via fissando lo schermo del mio cellulare: sai, da come ne parlo, sembra che sia al di sopra di tutto questo, invece capita a me, come a molti altri. Mi guardo attorno e vedo molte teste basse illuminate da una luce bianca o blu, pollici che scrollano furiosamente sullo schermo ed è quasi un tic, un vizio che non riusciamo a toglierci.
Nel video, bellissimo, della title track sei molto simile a Robert Smith dei The Cure: è un omaggio ai loro 40 anni di carriera?
In parte sì, è anche questo. I ragazzi che lo hanno girato sono nostri amici n dai tempi del college e insieme a loro abbiamo voluto da un lato riportare in auge l’estetica goth degli anni Ottanta, perché siamo tutti fan di band come Sisters of Mercy e degli stessi Cure, dall’altro mischiarla a elementi moderni così da rendere il tutto un po’ grottesco, com’è nelle nostre corde. Amiamo essere sempre abbastanza freak!
Parlate parecchio di morte in questo disco, penso a una delle tracce più potenti che è When You Die: che cosa c’è dietro questa insolita “passione”?
Noi MGMT siamo da sempre catalogati come band psichedelica e penso che non ci sia niente di più psichedelico della morte stessa. Il nostro interesse per tutto ciò che è metafisico ha radici lontane, ci accompagna da sempre, tant’è che sia io che Ben abbiamo una grande passione per tutto ciò che fa Alejandro Jodorowsky, quindi per noi è naturale parlare di morte in un pezzo pop.
C’è anche un messaggio politico in questo disco degli MGMT?
Così come Oracular Spectacular era nato sotto la dirigenza Bush, questo è, ovviamente, inzuppato nelle plumbee atmosfere dell’era trumpiana, per cui sì, è un album politico nel momento in cui riflette un preciso momento storico. Noi, però, vogliamo essere soprattutto un’ispirazione per chi desidera rivoluzionare la propria vita. E poi noi crediamo nel potere della musica, che, rispetto ad altre forme di arte, ha questa capacità di creare li invisibili che connettono le persone tra loro. Ancora oggi questa cosa, per me, è magica. Anzi, metafisica.
Che cosa dobbiamo aspettarci, invece, dagli MGMT in concerto?
Uno show che ci convince a pieno. Il tour sarà davvero l’occasione per dare vita a questo lavoro fatto in studio, per cui sono carichissimo. Sia io che Ben siamo in una bella fase delle nostre vite e questo non potrà che emergere dai concerti. Sono molto ottimista e per nulla preoccupato, come in genere è stato per i tour passati: credo che siamo cresciuti molto come band e soprattutto sono certo che i nuovi brani avranno un impatto ancora maggiore dal vivo. Dite ai weekend warriors italiani che li aspetto: li voglio in tantissimi, un esercito di guerrieri della pace! Che portino i figli, le amanti, le mogli, gli amici, i cani e tanti fiori.
Un’ultima curiosità: che rapporto hai con le vostre hit più famose, tipo Kids? Ti diverti ancora a suonarle?
Beh, quel pezzo, insieme ovviamente a Time to Pretend ed Electric Feel sono qualcosa che ci avvicina davvero alle persone, e sarebbe impensabile non suonarle. Farlo signi ca celebrare, rendere omaggio al pubblico, che ci ha permesso, per sbaglio o per destino, di fare della musica il nostro mestiere.
Intervista pubblicata su WU 89 (giugno 2018). Segui Carlotta su Facebook e Instagram
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