IL MIRACOLO VERO È SAPER RACCONTARE LE STORIE
La serie scritta da Ammaniti è un ottimo esempio di come si costruiscono e si narrano storie. A una Madonna che lacrima sangue sono appesi i destini dei personaggi
di Gaetano Moraca
Diciamolo subito: questa polemichetta tra le serie tv americane e italiane ha un po’ stancato. Io sono certo che noi italiani sappiamo raccontare bene le storie, siamo in grado di affrontare la complessità e di descrivere perfettamente il dramma delle esistenze personali. Qui sta il nostro punto di forza, nel cinema come nelle serie tv, e ce ne faremo una ragione se non abbiamo gli Avengers. Sono numerosi i prodotti validi degli ultimi anni e Il Miracolo, la serie tv scritta da Niccolò Ammaniti (insieme a Francesca Manieri, Francesca Marciano e Stefano Bises) e andata in onda su Sky Atlantic, è forse quello meglio riuscito.
Made in Italy al 100% – forse avrà qualche problema a farsi comprendere all’estero – è perfettamente capace di mettere sotto la lente del microscopio il nostro DNA. Il Miracolo infatti prende due aspetti principali del nostro retaggio culturale, criminalità organizzata e religione cattolica (non per niente tutti i criminali sono devotissimi) e ne fa il motore da cui prendono avvio i fatti. Sempre mafia, sempre processioni, chiosa qualcuno, camuffando la vergogna di essersi fatto trovare nudo ancora una volta. Una statuina della Madonna piange lacrime di sangue, ininterrottamente. Viene rinvenuta dalla polizia nel covo di un boss della ‘ndrangheta, la cui storia è narrata nell’antefatto di ogni puntata, prima del tema della serie Il Mondo cantato da Jimmy Fontana.
Il mondo di quanti entrano a contatto con l’inspiegabile mistero crolla vertiginosamente nell’arco delle otto puntate della prima stagione. C’è il primo ministro italiano (il bravo Guido Caprino) alla vigilia di un futuribile (ma bisogna dire distopico, sennò non conti niente) Italexit che può determinare le sorti del suo governo e del Paese, indeciso se rivelare al mondo quel miracolo. Nella sua casa all’ombra del cupolone, sua moglie (la straordinaria Elena Lietti) una first lady annoiata, alcolizzata, che non ama più il marito, si scontra con la babysitter dei suoi figli, integralista cattolica appartenente a una strana congregazione. Poi c’è Alba Rohrwacher, magnificamente disadattata, nei panni di una scienziata chiamata ad analizzare il sangue della madonnina e che vive esclusivamente per l’incartapecorita madre paralizzata a letto; Tommaso Ragno è il viscido e depravato padre Marcello creduto dai suoi parrocchiani un missionario caritatevole ma con una doppia vita fatta di slot machine, porno e inganni. Poi ci sono Clelia, una sorta di perpetua informatizzata che era stata la fidanzatina di padre Marcello prima che questo prendesse i voti e di cui è ancora innamorata ai limiti dell’incoscienza, e il generale di polizia che coordina la faccenda della madonnina e che scopre importanti dettagli sulla provenienze dalla statuina.
La scrittura è avvincente e perfettamente calibrata. Ci regala colpi di scena, momenti disturbanti o di genuina commozione, sullo sfondo di un’Italia alle prese con l’atavica disputa tra cattolicesimo e illuminismo, fede e scienza, bene privato e bene pubblico. Le vite dei protagonisti sono inquietanti ma vere, credibili, a dimostrazione che a volte il supporto – libro, film, serie tv – è accessorio se si possiede la capacità di raccontare bene le storie.
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