MATTEO MOBRICI – LA VITA OLTRE I CANOVA E IL NUOVO DISCO
All’ultimo workshop di Fonoprint abbiamo incontrato Matteo Mobrici con cui abbiamo chiacchierato del prossimo disco dei Canova e dei cambiamenti che hanno interessato la sua vita e quella della band negli ultimi nove mesi
di Giorgia Salerno
Bologna, 29 settembre. Durante la giornata di workshop sul mondo della discografia organizzata da Fonoprint a Bologna, Matteo Mobrici, il frontman dei Canova, ripercorre con Ernesto Assante il suo percorso artistico. Nel bel mezzo dell’incontro, dice che «la scrittura delle canzoni è un argomento molto strano: le canzoni sono qua, anche ora, mentre stiamo parlando. Se tu sei bravo a coglierla e trasformarla in canzone, sei i Rolling Stones, altrimenti… altrimenti no». Assante, a questo punto, se ne esce con un aneddoto sui Rolling Stones: una sera, finisce un concerto, e Keith Richards va in albergo ma non si addormenta: allora fuma, beve, mangia, fa quello che non deve fare, accende il registratore e suona. Essendo completamente fatto, a un certo punto bum!, crolla sul divano e si addormenta. La mattina si sveglia, vede che c’è il registratore acceso e dice «fammi sentire un po’ cos’ho fatto», e oltre al fumo, alle chiacchiere e alle risate, in quella registrazione c’è – e lui non lo sapeva, perché si era dimenticato tutto quello che aveva fatto la notte precedente! – il riff di Satisfaction. Si gira verso Mobrici e gli chiede: «Ecco, poi immagino che il processo da quel riff alla canzone sia faticoso, no?». Mobrici sorride: «Guarda, non so risponderti. Nel nostro caso non c’è premeditazione, un pensare a cosa sarà, cosa diventerà un pezzo. Quindi è tutto molto naturale, forse la paura è quella che arrivi il giorno in cui non sarà più così. Questa è una paura che hai ogni volta in cui scrivi una canzone, dici “questa è l’ultima”, perché non sei capace, nella vita di tutti i giorni, di essere come sei quando fai i pezzi, o come quando sei sul palco. La vita è un’altra cosa. Infatti io non sono il musicista e il frontman dei Canova tutto il giorno, mi piace tenere molto separati i fatti miei da quella che è la band. Stiamo molto attenti a gestire il mondo di Internet: non c’è quella smania per i like, anzi, piuttosto ce ne stiamo fermi. Per noi quella roba è un po’ da brividi, soprattutto se arriva da un musicista». Dopo il workshop abbiamo incontrato Matteo e ci ha raccontato del momento dei Canova e del loro nuovo disco imminente che sarà anticipato dal singolo Groupie.
Non puoi dirci quindi quando uscirà il nuovo disco dei Canova ma ci puoi dire se ci sono state persone che l’hanno influenzato, sia a livello artistico che personale.
La cosa bella dal punto di vista artistico è stata che, a differenza del primo disco, questo qui è davvero libero, nel senso che non c’è stato qualcuno a cui abbiamo fatto riferimento. Noi consideriamo il disco come un insieme di canzoni e non come un concept, quindi ognuna ha il suo microcosmo. Magari c’è una canzone che richiama un po’ più il sound degli Oasis, un’altra che, invece, è più Canova. Vorremmo arrivare a quel punto: al punto che l’incastro delle cose che facciamo suoni come “i Canova”. È un percorso lungo, me ne rendo conto, però si punta ad andare sempre più nel dettaglio.
Quanti pezzi avete registrato?
Sono nove canzoni. Erano nove anche nel disco precedente, e poi non mi piace l’idea di riempire a forza un disco.
Come si è sviluppato, in questi anni, il rapporto tra te e gli altri Canova? Avete riscontrato qualche difficoltà, anche magari nel periodo in cui avete iniziato ad avere successo?
Ci sono stati momenti in cui potevamo mollare come band: ognuno aveva (e ha) la sua vita, arrivare a 27 anni e avere davanti un hobby che non funziona non è facile. Qualcuno avrebbe potuto dire: «Sai che c’è? Io mi tiro fuori». Però siamo stati molto bravi a essere compatti e a vivere le cose tutti insieme a livello professionale, sia le feste sia i funerali diciamo. Siamo sempre stati molto uniti, specialmente nell’ultima fase, da quando cioè le cose sono andate bene. Abbiamo fatto un lungo tour e devo dire anche abbastanza faticoso da un punto di vista mentale, perché comunque non dormi mai e mangi quando capita. Quindi o stai bene con le persone con cui condividi il furgone, oppure diventa una guerra. Noi fortunatamente siamo prima amici e poi una band, quindi abbiamo vissuto insieme anche questo scalino della notorietà che poi in realtà altro non è che gente che stima quello che facciamo. Ci siamo protetti tutti insieme, così come esposti tutti insieme.
Come hai vissuto il cambiamento di questi nove mesi? Ti ha reso più stronzo, più figo o niente di tutto ciò?
La nostra vita è cambiata, nel senso che facciamo questo nella vita ed è la cosa che ci siamo sempre augurati. Per il resto, stronzo lo sono sempre stato (ride, NdR). No, a dire il vero non lo so. Sai cos’è, questo successo è capitato ora che io ho quasi 30 anni, quindi nella fase post-adolescenza, che in un uomo dura tipo fino ai 40. Questa cosa ci ha fatto diventare degli uomini, perché ce la siamo sudata proprio. Forse è come quando sei grasso da piccolo, poi dimagrisci e diventi un figo incredibile ma tu nella testa sei rimasto grasso. Quindi è cambiato questo, fondamentalmente. I Canova oggi sono forse più sereni, anche perché arrivati ai 26/27 anni sei messo di fronte a scelte importanti e nessuno di noi era messo bene. Io mi ero iscritto all’Università per non andare a lavorare, studiavo arte, che vuol dire un po’ tutto e niente… e infatti non aveva dato nessun frutto (ride, NdR). Non volevo lavorare perché non mi avrebbe dato la possibilità di scrivere le canzoni, ma allo stesso tempo non volevo laurearmi perché ero convinto che, una volta laureato, avrei poi pensato: «Cazzo, adesso devo fare qualcosa». L’ho tirata lunghissima e i miei mi hanno odiato per anni, però nel mentre sono cresciuto – penso – sia come persona sia a livello artistico.
Prima detto una cosa meravigliosa, cioè che questo percorso vi ha fatto crescere. Come pensi sarebbero stati i Canova se questa occasione fosse capitata all’inizio della vostra carriera?
Molto probabilmente sarebbe andata in modo diverso. Magari una major ci avrebbe anche dato la possibilità di fare un disco, perché un’etichetta indipendente non ce l’avrebbe mai data, visto che abbiamo sempre fatto pop. Non è cambiato poi molto da allora, le canzoni si sono semplicemente evolute e il modo di scrivere credo sia migliorato. Ce l’avremmo forse fatta, ma sarebbe andata molto male perché non avevamo esperienza e non solo per quanto riguarda aspetto artistico, ma anche riguardo a tutto quello che gira attorno a questo mondo. Quando si ha fame di fama non stai attento perché sei pronto ad accettare tutto pur di farcela. Invece ringrazio tutti quelli che ci hanno chiuso le porte, perché hanno permesso che il nostro percorso prendesse questa strada; questa è una metafora anche per altri ambiti della vita della gente. Non sempre chi arriva per primo è migliore degli altri, bisogna un po’ crederci, pur mantenendo consapevolezza. Questo poi è un ambito in cui sono tutti artisti, sono tutti qualcosa… e invece poi di sostanza ce n’è poca.
Parli di tutto questo con una lucidità impressionante. Sei sempre stato così?
Mah, un pochino sì, perché anche prima di Maciste Dischi, essendo una band, siamo stati abituati ad autogestirci. Siamo sempre stati abbastanza duri: non so se è una cosa positiva questa, eh, perché poi ci sono molte situazioni in cui ti precludi delle occasioni per dei preconcetti che hai. Lo sapremo tra un po’ se abbiamo fatto bene o male.
Durante l’incontro con Ernesto Assante hai raccontato che, dopo la data dell’Alcatraz, hai avuto un’urgenza di scrivere che ti ha fatto riversare tutto in 30 e più canzoni: nel disco dei Canova che ci aspetta c’è qualcosa che proviene da quell’urgenza o sono cose che hai rielaborato dopo?
Ce ne sono circa sette di quel periodo. Ho deciso quali canzoni presentare alla band e quelle poi sono piaciute sia a loro sia all’etichetta. Fortunatamente non mi hanno chiesto «vediamo se hai anche altro». Io sono molto soddisfatto, le ascolto come se non fossero canzoni mie. Ci sono notti in cui non riesco a dormire perché continuo a pensare a un determinato brano, come se fosse di un altro. C’è questo dualismo tra me e quello che scrive le canzoni, che sono sempre io ma… No, vabbè dai, è un discorso da matto (ride, NdR).
Cosa stai ascoltando ultimamente?
Avevo chiuso il capitolo inglese e americano quando c’è stato il periodo di esplosioni di canzoni italiane. La verità è che l’ultimo anno non mi è molto piaciuto, quindi non ho più questa bandiera di vanto, sembrava una grande rivoluzione ma poi ho perso un po’ di entusiasmo. Non ascolto cose nuove, purtroppo, non mi ritrovo nella musica internazionale, che vira un po’ sulla trap, sul rap o produttori che fanno dischi con cantanti presi dalla strada e robe così. Ascolto principalmente cose vecchie, però c’è da dire che ora mi sento libero anche di ascoltare un disco per il puro piacere di farlo. Quando sto già facendo io musica, invece, odio ascoltare altre cose, perché già ascolto tutto il giorno robe mie… Non so, è una cosa strana.
I social network ormai sono parte integrante del mondo musicale. Che rapporto hai con questi?
Diciamo che noi stiamo un po’ lottando contro tutto questo. Se su internet mostri la tua vita, cose del tipo: ti faccio vedere che cucino, che vado in palestra… Per forza, poi, quando mi vedi per strada mi fai: «Bella zi’!». No, bella zi’ no! Io sono per tenere le due cose belle distanti, anche perché le fashion blogger fanno un’altra cosa. Infatti io mi chiedo sempre: ma se ci fossero stati i social negli anni Settanta, avremmo avuto lo stesso occhio di riguardo per, che so, De Gregori? Magari De Gregori ci avrebbe fatto vedere le sue ragazze? Ci sarebbe stato sul cazzo? Magari no, ma magari sì.
Senza dubbio sarebbe stato tutto diverso, ma tu non pensi che sia un ulteriore modo per comunicare?
Il bello è che tu scegli cosa comunicare e quella è una grossa responsabilità, anche perché magari tu pensi che non ti stia guardando nessuno, ma non è assolutamente vero, quindi poi ti ritrovi gente sotto casa, nel ristorante in cui sei… Insomma, diventa tutto abbastanza strano. Poi sai, diventa una guerra di numeri: io ho più like e più follower, quindi sono meglio io. No, non funziona così! Almeno per me. Per esempio, prima parlavamo di Laura Pausini, verso il quale non ho nulla. Lei ha senz’altro fatto numeri importanti, ma questo vuol dire che è più brava di Tenco? Questa cosa vale anche per i social. Io spero di non perdere la testa e rimanere attaccato a quello che so fare.
La vostra musica segue dei canoni che potremmo definire tradizionali: quali ingredienti deve avere un progetto sperimentale per spronarti ad andare fuori dal tracciato?
Per me la sperimentazione sulla canzone è una cosa abbastanza complicata, perché la forma canzone per me è proprio perfetta, è una goduria. Mi emoziona ancora. Le nuove forme in voga ora non hanno nulla della forma canzone e questo “scontro” anche in radio, perché ci sono stazioni che trasmettono cose diverse e non riesco ad ascoltare una radio per intero, perché se mi metti, che so, il brano di Brunori e poi quello di Sfera Ebbasta, io cambio.
Tre pezzi che ci consigli da mandare in radio?
Sicuramente una canzone degli Strokes, ti direi Under Control perché ci sono, da lì nasce anche il famoso «ti dedico un pezzo degli Strokes», era proprio quel pezzo lì. Poi mettiamo Ancora tu di Battisti, che per me va proprio oltre. E mettiamo anche If I had a gun di Noel Gallagher, così non ti dico Oasis.
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