LA NUOVA SOCIETÀ DEL PIANTO
Sono sempre più folte le file di potenziali infelici cronici, ma dal Giappone arrivano i workshop del pianto, programmi finanziati dal governo e diventati obbligatori per chi lavora in aziende con più di 50 dipendenti
di Chiara Temperato
L’ansia è la malattia del XXI secolo: un’abusata conclusione ma altresì una scomoda verità, figlia dell’epoca in cui viviamo, fatta di ricche aspettative e di illusioni a tempo determinato, di massacrante e malpagato lavoro, di relazioni virtuali e di mille concrete frustrazioni. Numerosi studi confermano che le lacrime sono un reale palliativo per lo stress. Il pianto stimola la circolazione del sangue, aumenta il livello di serotonina ed è un vero e proprio detox per il nostro corpo perché espelle le sostanze prodotte quando si accumula tensione emotiva. A differenza delle lacrime che si generano in modo naturale per irritazioni o allergie, quelle derivanti dal pianto sono ricche di corticotropina, di prolattina e di manganese (quest’ultimo presente in cervelli depressi in dosi massicce). L’88,8% rivela di sentirsi meglio dopo essersi sfogato e in media l’uomo lo fa sette volte l’anno contro le 47 della donna.
Il Giappone, che quando si tratta di sperimentazione e innovazione non si fa mai trovare impreparato, ha visto nel pianto una strada per la felicità e così ha deciso di promuovere club e corsi ad hoc, vere e proprie full immersion mediate da esperti e studiosi. Una scelta radicale ma necessaria, in un Paese poco abituato alla manifestazione dei sentimenti, dove il lavoro può diventare insostenibile per l’eccessiva dose di stress che produce.
È noto infatti che il Giappone sia uno dei Paesi con il più alto tasso di suicidi per cause lavorative. Esiste proprio un termine, karoshi, che indica la “morte per sovraccarico di lavoro”. Spesso l’esasperante numero di ore passate in ufficio deteriora il fisico e la mente, così da provocare patologie gravi come ictus e attacchi di cuore. Un rapporto del 2016 afferma che un quarto delle aziende analizzate obbliga i dipendenti a fare minimo 80 ore di straordinari al mese (spesso non pagati), mentre il 12% delle aziende ha dipendenti che fanno oltre 100 ore di straordinari.
Ma come funzionano questi club delle lacrime? In origine c’erano solo alcuni hotel che riservavano le cosiddette “stanze del pianto” a chiunque volesse sfogarsi in solitaria, con tanto di film e libri a solleticare le emozioni più intime. Habitat inizialmente solo per donne, considerate soggetti deboli e vulnerabili, off limit invece per gli uomini, culturalmente esonerati dal pianto in quanto equilibrati come vecchi e saggi samurai. Poi sono diventate un rifugio anche per loro, per tutti quei businessman di nuova generazione sempre più stressati e soli. Il passo successivo è stato quello di trasformare il pianto in un’esperienza collettiva.
Oggi in Giappone scuole e aziende hanno istituito dei “corsi di pianto” per incentivare studenti e lavoratori a tirare fuori tutte le loro emozioni. Hidefumi Yoshida, ex professore di liceo, è stato il primo guru a proporre la nuova disciplina didattica. L’iniziativa ha avuto un largo successo tanto che Yoshida è stato ingaggiato da almeno un centinaio di aziende in qualità di namida sensei ossia professore del pianto. Pare che il metodo stia funzionando, tanto che qualcuno ne ipotizza un possibile sbarco in Europa.
Secondo Yoshida il pianto è più curativo del sonno e della risata. Attraverso film, libri e musica propedeutici il professore crea ambienti ad hoc, inducendo gli allievi a tirare fuori ogni stress e ansie sotto forma di lacrime. Dal 2015 il governo finanzia il progetto e ha introdotto il programma di pianto obbligatorio nelle aziende medio-grandi dove le classi possono essere formate anche da 40 persone. «Il pianto è un sistema di autodifesa dallo stress costante», afferma Junko Uminhara della Nippon Medical School.
Tra le economie più forti al mondo, ma forse tra le società meno felici, il Giappone dimostra di aver bisogno di ascolto e di sfogo. E così, a modo suo, lancia un SOS e inizia a combattere uno degli effetti dell’economia postindustriale spronando la popolazione a manifestare i propri sentimenti. Perché ridere, amarsi e piangere in pubblico non devono essere visti come un’offesa o una colpa di cui vergognarsi ma piuttosto un sintomo di coraggio, autenticità e intima connessione con gli altri.
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