LUCIO CORSI – PER NON ESSERE RICORDATO
‘Cosa saremo da grandi’ è il terzo album del cantautore maremmano, che come pochi sa raccontare scorci di vita, di paesaggi e di emozioni. Lui, che all’amore per la natura abbina quello per il glam, ci ha spiegato che il segreto della felicità è «essere felici per le partenze, non per gli arrivi»
di Carlotta Sisti
Lucio Corsi, quando parla, è specchio della propria musica: scansa le piacionerie, fa lunghi, eleganti salti per non cadere nella retorica, semplifica tutto, grazie alla sincerità. “Semplificare” può apparire un verbo stonato per uno come lui, impossibile da immaginare senza i look fiabeschi, che mischiano il glam al d’antan all’avanguardia della moda gender free. Eppure, chiacchierandoci, basta un minuto perché esca e prenda il comando l’animo maremmano, fatto di natura, famiglia, sogni e solitudine. Cosa faremo da grandi è il suo terzo disco ed è uscito tre anni dopo quella delizia che è Bestiario musicale. Allora come oggi, Lucio Corsi sfugge (materia nella quale, abbiamo capito, è abilissimo) alle correnti musicali, senza calcolo, ma seguendo il vento fresco della sua ispirazione che, come nel video della title track, lo sta facendo navigare a vele spiegate verso un tour che lo emoziona e lo rende felice.
Lucio, sei il tipo di artista che uno si immagina sempre alle prese con cose alte: hai per caso anche qualche passione terra terra?
Sì, certo che sì. La vita è fatta di tante cose, non di un’unica linea. La mia unica, ma fortissima, passione sportiva è il motociclismo. Sono un grande fan di gare di motociclette. E ti dirò, non sono nemmeno uno di quelli che si bulla perché “non guarda la televisione”, non sono uno da estremi, in nessun campo, non fanno proprio parte di me.
Stavo pensando al tuo nome e a come suoni già destinato a fare cose speciali…
È un nome che mi piace, sono felice che i miei genitori me lo abbiano dato. Deriva da mio nonno da parte di padre, che si chiamava Luciano e che non ho conosciuto. Nulla ha a che fare con i cantautori italiani, ma con gli affetti, ha dentro il calore domestico e questo è bello.
Cosa faremo da grandi mi è parso subito un disco coraggioso, perché tanto diverso da tutto ciò che c’è in Italia oggi. Ti sei sentito coraggioso nel farlo?
Non è il dovermi differenziare ciò che mi interessa quando scrivo o compongo, ma l’esserne felice, fiero e soddisfatto, fregandomene di ciò che mi sta intorno. Non faccio musica per la moda, perché non c’entra niente: la base dell’espressione artistica è che sia sentita, se qualcuno segue altri meccanismi meglio faccia altro.
Da che cosa è nato questo pensiero che «nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi»?
Questo modo di pensare alla vita me lo ha passato mio padre, che mi ha insegnato che si può essere felici anche senza raggiungere chissà quale obiettivo, senza cercare di volersi far ricordare perché, come dice lui, ci si scorderà, ed è giusto, di tutto. Essere felice nel ripartire, più che nel tagliare la linea del traguardo, festeggiare più le partenze che gli arrivi, godere del momento, e questo si traduce nel non poter sapere che cosa si farà in seguito.
E ci riesci, a essere felice qui e ora?
Ci provo. Faccio musica senza la smania di raggiungere traguardi, lo faccio per stare bene e se l’arte la si vive così si è già in partenza molto più sereni.
Il tuo è un disco dove si può trovare tanto Bowie quanto De Andrè, sei d’accordo?
Sì, questi sono i miei grandi amori musicali. Mi piacciono tanto i cantautori italiani, da Ivan Graziani a Paolo Conte su tutti, fino a Dalla e De Andrè. E poi il glam rock degli anni Settanta, che è una passione che mi porto dietro sin dai primi anni dall’adolescenza.
C’è anche tanto mare, in queste nove canzoni di Lucio Corsi.
Sono affezionato al mare, perché ci sono cresciuto, come dice Ivan Graziani: «La mia casa è il mare, con un fiume no, non la posso cambiare» e ritorna, ovviamente, nei testi. So che oggi il mare è visto anche come luogo di tragedie, ma un pezzo come Onde non nasce come pezzo politico. Mi fa piacere se qualcuno ci trova anche quel significato, ma ritengo che per scrivere canzoni di protesta si debba avere alle spalle un vero e concreto impegno, una vera militanza in quel campo. Sennò la trovo una cosa disgustosa, squallida e sbagliata: è farsi pubblicità sulla pelle di gente che soffre davvero, farsi dire: «Bravo/a, meno male che ci sei tu a dirlo» e poi andare in vacanza negli hotel cinque stelle con la piscina.
Con la gestione della solitudine, che dici essere più grande in una grande città delle dimensioni di Milano, come sei messo?
Meglio, perché Milano l’ho rivalutata e ho capito come starci bene, anche grazie ai luoghi cantati da Gaber e Jannacci. La città come luogo in sé non mi piace, preferisco di gran lunga non avere alcun tipo di attrazione intorno, se non quella del paesaggio, piuttosto che mille eventi a cui andare. Tra la città e la campagna preferirò sempre la campagna, perché sono cresciuto tra l’ombra degli alberi e non tra i pali della luce. Tornando alla solitudine, è un’altra lezione che mi ha regalato la campagna, perché sin da piccolo sono stato abituato a non avere nessuno, nemmeno i vicini di casa, intorno a me e così ho imparato a godere dello stare da solo, che è qualcosa di molto importante e molto sottovalutato oggi. Trovo sia bello stare da soli, per scrivere ma anche per non fare nulla, anzi: io a volte ho bisogno di non avere nessuno intorno.
Abbiamo parlato di tanti luoghi: qual è quello in cui Lucio Corsi sogna di suonare, prima o poi?
Il deserto. E nell’abbazia di San Galgano.
Intervista pubblicata su WU 100 (febbraio – marzo 2020). Segui Carlotta su Instagram
La foto di Lucio Corsi in alto è di Tommaso Ottomano
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