JACOPO MILIANI – C’ERA UNA VOLTA LA NOTTE
Jacopo Miliani ci racconta il suo primo film, intitolato figurativamente ‘La discoteca’, che verrà presentato al pubblico il prossimo autunno
di Marco Torcasio
Pier Vittorio Tondelli aveva una fascinazione particolare per la discoteca, l’ha descritta come il luogo per eccellenza della seduzione di massa, un immenso parco di divertimenti nel quale vigevano regole “altre” nei gesti, nel linguaggio e nei comportamenti. Poi questa concezione, così come la conoscevamo, è andata via via scomparendo, e al suo posto club, festival, eventi, applicazioni per incontri. Partendo da questi temi il primo feature film La discoteca di Jacopo Miliani supera i confini della performance, portandociin una dimensione fatta di riprese cinematografiche, autobiografia, vecchi flyer, canzoni e cose pop. Promosso dall’associazione culturale Nosadella.due, curato e prodotto da Elisa Del Prete e Silvia Litardi del direttivo curatoriale NOS Visual Arts Production, il progetto filmico nasce dalla collaborazione di diverse realtà (APS Arcigay Il Cassero/Gender Bender Festival, Bottega Bologna, If I Can’t Dance, I Don’t Want To Be Part of Your Revolution, Run by a group / openspace) e arriverà il prossimo autunno.
Che cos’è, in poche parole, La discoteca?
È un passo in avanti verso il linguaggio, per me nuovo, del cinema. L’opera è un vero e proprio film, una produzione cinematografica con tanto di casting, attori, montaggio e colonna sonora. La trama parla di un futuro distopico in cui le discoteche hanno perso la loro funzione aggregativa e sono diventati luoghi di controllo dell’intimità interpersonale. Ho iniziato a lavorare al progetto nel settembre 2020, partendo da un workshop per il Gender Bender Festival di Bologna, dove tornerò in autunno per presentarne la versione compiuta.
Si tratta di un “feature film”. Chi ti affianca in questo progetto?
Un mix di vecchie conoscenze e nuove muse ispiratrici. Nel lavoro di ricerca mi affianca, per esempio, Luca Locati Luciani, archivista e collezionista di materiale a tema LGBTQIA+ legato al mondo della discoteca. Ora sto incontrando e cono- scendo anche gli attori che andranno a comporre il cast, di cui non posso ancora rivelare nulla. Hanno un ruolo importante nella produzione anche figure più istituzionali come Il Cassero di Bologna e il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato. Alcune delle persone coinvolte conoscevano già il mio lavoro, men- tre altre sono stato io stesso a cercarle perché appartengono al mio immaginario.
Nell’organizzazione della produzione quali spazi ti stanno mancando in pandemia?
Mi stanno mancando i momenti in valore assoluto e poter affrontare i casting e le prove senza distanze.
Quanta nostalgia c’è nella storia che racconti in questa opera e quali sono i punti di contatto con la tua vita privata?
Non c’è mai una scissione netta tra la mia sfera personale e quella artistica. Tematiche per me identitarie come il corpo, la sessualità, l’incontro, sono tutte riconducibili all’immaginario della discoteca. E da quelle sono partito per sviluppare un’indagine che guarda alla discoteca come luogo fisico, con le sue architetture precipue. Ci sono gli anni Settanta e gli anni Ottanta, la periferia, i flyer, gli inviti, i rituali. Appartengo a una generazione “pre Tinder” e ricordo ancora quando i genitori venivano a prenderci fuori dalla discoteca di domenica. Sto cercando di condensare elementi documentaristici di carattere storico con aspetti più emozionali legati ai miei trascorsi. Il titolo dell’opera è, non a caso, in italiano, perché racconta la mia storia nel contesto in cui l’ho vissuta.
Nel futuro le discoteche non esisteranno più?
La discoteca è già scomparsa con l’avvento di internet, con l’idea quindi che non sia più necessario recarsi in quel luogo per incontrarsi. Quello di disco- teca è un concetto che appartiene al passato ancora prima che accadesse quello stiamo vivendo oggi.
C’è differenza tra discoteca e clubbing?
Come dice l’etimologia della parola, la discoteca è una raccolta di dischi o un luogo in cui ha sede tale raccolta. Tutto si gioca sull’idea di spazio, concetto che viene meno quando si parla di clubbing poiché quest’ultimo è replicabile ovunque, in luoghi sempre diversi, e può cambiare forma, trasformandosi in evento di massa. In discoteca, poi, conta molto la percezio- ne di sé, di chi si vuole essere in quel determinato momento, che sconfina quasi nella ricerca della perfezione. Il clubbing invece può sfociare nell’uscire di sé e attiene a un mood più noncurante.
Quanta importanza ha la componente musicale all’interno di questo racconto?
Ho chiesto di realizzare una colonna sonora specifica per il film a un giovane e talentuoso compositore, Thomas Costantin. Mi sta scrivendo proprio in questo momento tra l’altro…
Cosa stai provando mettendo in gioco le tue passioni e i tuoi sentimenti?
Paura. Quando un progetto ha dei tempi di realizzazione lunghi, inevitabilmente acquisisce importanza e le aspettative crescono. Senza considerare che rappresenta un investimento per tante altre persone. Ed è un sentimento che in qualche misura ritorna anche nel film.
In che senso ritorna nel film?
Da bambino avevo paura dei fiori, adesso invece mi piace averli in casa. Avevo paura dei film di Dario Argento, poi sono diventati un mio punto di riferimento. In occasione di una performance che tenni a Roma, proiettai Profondo Rosso, ma soltanto il sonoro, senza le immagini. Il pubblico in sala rimase sconcertato. A un tratto la proiezione s’interrompeva e Dario Argento iniziava a raccontarmi la sua idea di cinema, in particolare l’idea di un cinema soltanto sonoro. La nostra chiacchierata sarebbe dovuta confluire in seconda istanza in un’opera appunto sonora, ma il caso ha voluto che la registrazione non andasse a buon fine. La paura che provai fu molto effimera, ma è rimasta impressa nei miei ricordi.
Nella foto in alto: Jacopo Miliani, foto di Sara Scanderebech
Intervista pubblicata su WU 107 (aprile – maggio 2021)
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