STARTUP, COME STAI?
I dati indicano che le aziende innovative in Italia sono in costante aumento e ottengono finanziamenti sempre più ingenti. D’altro canto, non sempre quantità e qualità coincidono. Ecco un breve resoconto sullo stato di salute delle startup nostrane
di Marco Agustoni
Si parla tanto di startup negli ultimi tempi, spesso con l’orgoglio un po’ provinciale di chi si mette in bocca un termine estero che va di moda. Ma molte volte non ci si pone una domanda fondamentale: come stanno, effettivamente, le startup innovative in Italia? La risposta, come è ovvio che sia, è complicata, anche se i dati sono incoraggianti, perché indicano un trend in crescita.
Il report trimestrale di luglio del Ministero dello Sviluppo Economico rileva un aumento costante nella popolazione delle startup innovative, che all’1 luglio 2021 sono più di 13 mila. Se andiamo a sviscerare questi numeri, troviamo però un netto squilibrio, dato che ben un quarto di queste si trova in Lombardia, mentre quasi un quinto ha sede nella città di Milano, che da sola ha più “peso” di qualsiasi altra regione dello Stivale. Aumentano gli investimenti, come rilevato da Startup Italia: nei primi sei mesi del 2021 sono stati investiti 661 milioni di euro in startup e imprese innovative, fra round vari, business angel e crowdfunding. In metà anno siamo quindi già vicini ai 700 milioni del 2020.
Ma anche se una crescita c’è, non significa che la situazione delle startup italiane sia in tutto e per tutto rosea, soprattutto se paragonata ad altre realtà europee. Al di là dell’aspetto quantitativo, infatti, bisogna guardare anche a quello qualitativo. Andrea Dama, esperto di business plan che ha aiutato più di una startup a spiccare il volo, nota: «In Italia abbiamo un ambiente con alcune eccezioni a livello di venture capitalism, business angel e investitori, con un 5-10% di startup di grande valore, con ottimi progetti e piani ben fatti. C’è poi un 20% di startup meno finanziate, ma fatte da gente seria e in gamba. E per finire, c’è quella che possiamo chiamare fuffa». Le realtà strutturate e di ampio respiro, insomma, sono solo una frazione del totale. Il che, in parte, è fisiologico, ma va anche ricondotto al contesto particolare italiano diverso anche se solo paragonato al resto d’Europa.
I motivi di queste difficoltà sono molteplici. Di sicuro, da un punto di vista istituzionale c’è ancora molto da fare, ma incentivi e normative a favore delle startup ci sono già. «È vero che ci sono ancora delle lacune – spiega Andrea Dama – ma per quanto migliorabile, la legislazione non rappresenta il fattore più critico». Piuttosto, le difficoltà nostrane sono di carattere culturale e strutturale. A motivare l’ampia fascia di startup di bassa qualità è infatti da un lato «la mancanza di una cultura specifica: il numero di business angel e venture capitalist è molto inferiore rispetto ai Paesi più avanzati. E c’è ancora tantissima gente che fonda una startup apposta per un bando, mentre ovviamente prima dovrebbe venire l’idea».
La mancanza di una strategia di medio-lungo termine, così come la lungimiranza anche solo di investire in un business plan fatto come si deve finisce per togliere l’ambizione alla maggior parte dei progetti. Dall’altro lato, prosegue Andrea, «c’è una motivazione strutturale e riguarda la mancanza di filiere articolate. Nei Paesi dove c’è una filiera di startup ben fatta abbiamo l’università, l’incubatore, investi- menti ingenti, una grossa organizzazione dietro un singolo settore. Questo in Italia non è che non esista, ma è una rarità». I punti di riferimento a cui guardare, in Europa, sono Francia e Germania. «In Germania, per esempio – continua Dama – ci sono i Fraunhofer, istituti che fanno dialogare le grandi imprese con i centri di ricerca e le università».
Viene allora da chiedersi: è possibile e soprattutto conveniente fondare una startup innovativa in Italia, oppure, come consigliano alcuni, l’unica soluzione consiste nel cercare fortuna altrove? Andrea non è così categorico: «Esempi di startup di primo piano ne abbiamo, in Italia. Diciamo che dipende: se uno deve fare una startup piccola, può anche farla senza problemi qui. Se vuole creare una startup di altre dimensioni dovrà farla all’estero se non riesce a sviluppare un piano di ottimizzazione fiscale adeguato e se non ci sono i presupposti strutturali, come per esempio un incubatore dedicato al proprio settore». Quando gli si chiede che cosa serva alle startup italiane per riuscire a effettuare il “passaggio al livello successivo”, Andrea Dama non ha dubbi: «Punto uno, una massa critica di business angel superiore che assicuri un adeguato livello di investimenti. Punto due, filiere e incubatori e più strutturati». C’è molto da lavorare, insomma, e le soluzioni non sono certo di quelle a breve termine, perché è necessaria un’ottica di lungo periodo con degli obiettivi ben chiari: per raggiungerli, è necessario sicuramente un impegno istituzionale, che però da solo non è sufficiente. Per tornare alla domanda iniziale di questo articolo, ovvero “come stanno le startup in Italia?”, potremmo quindi rispondere: «Bene, ma non benissimo». Oppure, per ribaltare la prospettiva in chiave ottimistica, alla luce dei dati di settore: «Con qualche difficoltà, ma in costante crescita».
Foto in alto: gli interni della Proxyclick, azienda specializzata in sicurezza. Foto da Unsplash
Andrea Dama su LinkedIn
Articolo pubblicato su WU 109 (settembre 2021)
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