ANALOGPOLIMI, IL FASCINO DELL’ANALOGICO
Stesso soggetto, stessa posa, ma quello che vediamo è inspiegabilmente diverso. Secondo i ragazzi di Analogpolimi la differenza fra analogico e digitale non è una questione estetica, è la consapevolezza dell’istante dello scatto a rendercelo così famigliare
di Giorgia Martini
Sistema di fotocamere pro 12 Megapixel con teleobiettivo, grandangolo e ultra- grandangolo. Peso: 203 grammi. Capacità: fino a un tera. Sono le specifiche tecniche dell’ultimo iPhone. La mia Canon FTb QL del 1971 pesa circa un chilo, ha un solo obiettivo da 50 mm e scatta 36 fotogrammi. Ho chiesto ai ragazzi di Analogpolimi, Giacomo Tura e Iacopo Benciolini, di aiutarmi a capire perché, nonostante tutto, vale ancora la pena lasciarsi sedurre dalla pellicola.
Giacomo e Iacopo sono due architetti, il primo vive a Porto, il secondo a Milano. Hanno creato Analogpolimi nel 2019, mentre Iacopo era a Madrid e sviluppava il quarto rullino della sua vita e Giacomo a Milano. Tutto inizia con un audio registrato camminando in Piazza Leo: l’idea è ancora vaga, centra la fotografia analogica. Il progetto prende forma in fretta e a settembre 2019 parte, grazie ai fondi del Politecnico. In cosa consiste? Ogni mese i partecipanti si riuniscono, a ciascuno viene consegnato un rullino, il mese successivo si torna per svilupparlo e ritirarne uno nuovo. Il materiale a disposizione basta per 20 persone, le richieste sono più di 80. È un modo per avvicinarsi a una passione costosa, che con i fondi dell’università diventa più accessibile. «Vedere la faccia di chi per la prima volta immerge il negativo nella vasca è bellissimo. È la faccia di chi si è già arreso al fallimento e poi vede comparire qualcosa», racconta Giacomo.
Chiedo loro che cos’è che suscita interesse della fotografia analogica, cos’è che ci attira e ci spinge a scegliere il costo, l’imperfezione, il rischio che non esca nulla, invece della certezza della performance del digitale. Giacomo mi risponde che secondo lui è la fallibilità: lo scatto in analogico ci ricorda che siamo imperfetti. «Nella grana, nello sporco e nei graffi rivediamo noi stessi». Ogni fotografia è una scelta, è la selezione di un attimo tra infiniti attimi, è il tentativo di catturare un momento che si è dato e non si darà più. La fotografia analogica per Iacopo è anche l’esatto prodotto di un movimento, che passa in modo intenzionale, meccanicamente, dal nostro corpo allo strumento. «Non ci sono intermediari, l’immagine che si imprime sulla pellicola è la conseguenza inevitabile di un nostro gesto». Ogni scatto ci appartiene perché è l’attimo che abbiamo scelto, a prescindere da come sia la foto che ne risulta, perché è materialmente il puro frutto di un nostro agire e per questo è un prodotto che contiene una parte di noi, anche quando il rullino è inserito male e alla fine ti accorgi che non hai fotografato nulla.
Quando i ragazzi mi parlano dell’umana imperfezione che si riflette nella fotografia analogica, penso alla finitudine del nostro esistere e alla rotellina del conta scatti sulla mia Canon. Da 1 a 36, ogni click è uno scatto in meno, ogni scatto fissa sul rullino una scelta, non posso fare infinite scelte. Di tutti i momenti che mi passano davanti, posso fermarne solo 36. A questo proposito, Giacomo mi racconta che per lui una delle differenze principali con il digitale sta nel fatto che fotografare con il telefono ha un valore documentale, mentre la fotografia analogica è un mezzo per costruire una narrazione collettiva, consapevole, perché ogni scatto dice qualcosa di chi ha deciso di fermare quell’istante.
Il feed Instagram di Analogpolimi mostra un pezzo di questa storia: trittici in cui ogni foto riproduce uno stesso soggetto, ma scattata da persone diverse, in momenti e luoghi diversi. Secondo Giacomo «questo serve per ricordarci che i nostri scatti immortaleranno il più delle volte cose banali, catturate da mille altri in altrettanti scatti. Ma non per questo dovremmo cercare altro, è l’unicità del momento che solo noi abbiamo vissuto che ci distingue, mentre l’omogeneità dei soggetti ci unisce e ci rende parte di una collettività».
Dico loro che guardando le foto che condividono mi viene in mente l’Italia minore di Luigi Ghirri, quella che secondo il fotografo emiliano non stava sulle copertine delle riviste, ma che nei fatti costituisce l’Italia maggiore, quella che attraversi per raggiungere gli scorci da cartolina. Giacomo e Iacopo mi rispondono che per loro il senso del progetto sta proprio nel nome: fotografare in analogico per raccontare luoghi, persone, momenti che riguardano gli studenti, che hanno le ragazze e i ragazzi come protagonisti. E per questo non c’è niente di perfetto, di straordinario, c’è l’ordinarietà di cui è fatta la vita di ognuno di noi ed è proprio questo che rende il progetto entusiasmante. L’archivio, potenzialmente infinito, di Analogpolimi, è depositario della storia che contribuisce a costruire, come luogo, fisico e virtuale, di strade che si incrociano e vite che si incontrano.
Articolo pubblicato su WU 114 (giugno – luglio 2022)
Nella foto in alto: una foto del progetto Analogpolimi di Mariaclaudia Tricarico (@torcicollo)
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