È TUTTO FINTO?
La possibilità che il mondo in cui viviamo sia una simulazione è sempre più in auge fra filosofi e studiosi della tecnologia. Sapere che forse non siamo altro che una lunga serie di 1 e di 0 può aiutarci a vivere meglio la nostra vita?
di Marco Agustoni
E se “la vita, l’universo e tutto quanto” (partire con la citazione di uno dei più celebri autori di fantascienza, Douglas Adams, non è un caso) non fosse altro che una gigantesca, spettacolare truffa? Dopotutto, l’idea che la realtà sia una mera illusione ronza nella testa dell’uomo da millenni. Si è affacciata nella speculazione religiosa e filosofica tramite concetti come la māyā induista. Ha fatto capolino in opere di fiction grazie a numerosi racconti di sci-fi, film come Matrix e persino serie animate come Rick & Morty. E ultimamente sta godendo di grande popolarità tra filosofi, scienziati ed esperti di tecnologia.
Libri come The Simulation Hypothesis di Rizwan Virk puntano in una direzione sconcertante: il nostro mondo non è altro che una simulazione digitale. A sostenere con forza la Simulation Hypothesis è anche David Chalmers, filosofo australiano celebre per le sue teorie (talvolta controverse) sulla coscienza. Nel suo recente Reality +, ancora inedito in Italia, Chalmers non si permette di affermare con certezza che noi viviamo in una simulazione, ma spiega come non sia possibile dimostrare il contrario, perché se viviamo in una cosiddetta “simulazione perfetta”, qualsiasi argomento utile ad affermare la nostra “effettiva” esistenza è puramente illusorio.
Fin qui niente di nuovo, dato che altri studiosi sono giunti alla stessa conclusione, arrivando addirittura ad affermare, come nel caso del filosofo Nick Bostrom, che sia statisticamente più probabile che il nostro Universo sia una “semplice” simulazione. Tra l’altro, la Simulation Theory è disponibile in diverse varianti, dalla versione It from Bit from It, in cui come in Matrix ogni soggetto simulato ha un corrispettivo biologico, alla versione It from Bit, in un certo senso più “pura”, in cui i protagonisti della simulazione non sono altro che una lunga serie di 1 e di 0.
Chalmers però si spinge oltre, fino ad affermare che qualsiasi simulazione sia “reale”, comprese quelle create oggigiorno con Realtà Virtuale e Realtà Aumentata. Con questo non intende dire che gli oggetti virtuali siano dotati della stessa concretezza degli oggetti reali, quanto piuttosto che siano “veri oggetti digitali” fatti di bit. Quindi, quando interagiamo con un gatto virtuale magari non stiamo interagendo con un micio in carne e ossa, ma abbiamo comunque a che fare con un vero gatto digitale. Interagiamo davvero con quel gatto. E interagire con quel gatto ha un reale effetto su di noi, allo stesso modo in cui fenomeni puramente illusori possono avere un effetto concreto sul nostro mondo quotidiano.
Le esperienze che viviamo all’interno delle simulazioni sono esperienze reali e talvolta molto significative. E il fatto di vivere, quantomeno ipoteticamente, all’interno di una simulazione non rende la nostra vita meno “valida”. Tutto questo potrebbe sembrare pura speculazione filosofica, e in effetti affermare che forse (probabilmente?) viviamo all’interno di una simulazione, solo che non saremo mai in grado di saperlo, non ci aiuta granché a vivere meglio il nostro quotidiano.
Ma in un mondo in cui la commistione fra reale e virtuale si sta facendo sempre più marcata, con IA i in grado di “creare” persone all’apparenza reali – come nella serie di stampe su specchio intitolate Missing Person, opera presente alla Biennale di Venezia, in cui Lynn Hershman Leeson ha costruito con l’aiuto di una AI una galleria di ritratti di individui mai esistiti –, sistemi di VR e AR sempre più efficaci e metaversi in fieri, affrontare questioni simili rappresenta ben più che un esercizio di stile.
Qual è la vera natura della nostra realtà e che rapporto intercorre tra essa e gli altri tipi di realtà? Cosa ci rende umani: il nostro corpo di muscoli, ossa e visceri oppure il fatto di essere coscienti e provare emozioni? Per non parlare delle implicazioni morali in ballo. Tanto per fare un esempio: abbiamo dei doveri etici nei confronti di esseri digitali creati da noi, ma in grado di avvertire gioia e sofferenza, o possiamo disporre di loro come meglio crediamo? Tra conseguenze esistenziali di- rompenti e questioni di carattere pratico, c’è fin troppa carne al fuoco. Nel frattempo, tanto vale prenderla con filosofia: se anche noi e le persone che ci circondano non siamo “reali” (qualsiasi cosa significhi), sono però autentici i rapporti che ci legano e i sentimenti – positivi o negativi – che proviamo per conto nostro e l’uno per l’altro. E forse, in definitiva, è solo questo ciò che conta.
Articolo pubblicato su WU 116 (ottobre – novembre 2022)
La foto in alto è di Andrea Rossetti. Sullo sfondo: ‘Evidence of a Missing Child, Born 2019′, (2021), ‘Evidence of a Missing Person, Born 2019’, (2021), stampe digitale su vetro. Photo Courtesy Lynn Hershman Leeson ; Bridget Donahue, New York; and Altman Siegel, San Francisco
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