DI CHI CI POSSIAMO FIDARE?
Con The Book of Veles Jonas Bendriksen ha ingannato tutti e dimostrato che la manipolazione della realtà è ormai pervasiva. Tra AI onnipotenti, video deepfake e media tradizionali in crisi, distinguere il vero dal falso è diventato sempre più difficile
di Marco Agustoni
Who Can You Trust?: così si intitolava l’album d’esordio dei Morcheeba, datato 1996. Chissà se allora la band formata dai fratelli Godfrey e dalla vocalist Skye Edwards si aspettava che proprio questa domanda, “Di chi ti puoi fidare?”, sarebbe diventata uno dei quesiti più significativi del secolo a venire. Guardandosi intorno, la risposta parrebbe impietosa.
Nell’era della post-verità, come è stata definita la tendenza ad accettare una notizia non in base alla sua verificabilità e veridicità, ma in base alle emozioni che essa genera in noi, forse non ci si può davvero più fidare di nessuno. Tra insulsi complotti che vedono candidati alla Casa Bianca invischiati nel traffico di minori e vaccini che inoculano microchip per il controllo della popolazione, salvare il dibattito pubblico dalle notizie anche più improbabili è diventato sempre più arduo.
Non che in passato le fake news non esistessero. Anzi, sono sempre state un potente strumento per orientare l’umore dei popoli. A essere cambiata è la magnitudo del fenomeno, grazie alla facilità e alla rapidità di condivisione delle notizie posticce, il cui impatto sulla società reale è però tutt’altro che immaginario. In un contesto simile, quindi, di chi ci possiamo fidare? Verrebbe da rivolgersi a fonti per così dire “tradizionali” come il fotogiornalismo, ma a quanto pare anche questo versante è in seria crisi.
Lo dimostra una recente operazione del reporter di Magnum Jonas Bendriksen, che nel suo The Book of Veles ha raccontato la storia di Veles, cittadina della Macedonia del Nord protagonista nel 2016 di un peculiare fatto di cronaca. Durante le presidenziali USA, alcuni cittadini avvezzi alle nuove tecnologie hanno scoperto che potevano fare soldi creando finti siti di news, specializzati nella diffusione di notizie a favore del repubblicano Donald Trump, veicolando i contenuti sui social e incassando dalle inserzioni pubblicitarie. Pur nel proprio piccolo, questa vera e propria fake news factory formato città potrebbe avere giocato un suo ruolo (per quanto sia difficile stabilire quanto significativo) nella vittoria del controverso candidato repubblicano.
La cronaca di Bendriksen include un testo di circa 5 mila parole e alcune fotografie scattate sul posto. Questa vicenda si intreccia, nel lavoro del fotografo, con quella di un altro Libro di Veles, ovvero un presunto documento storico rinvenuto agli inizi del XX secolo da un ufficiale russo, ritenuto però dai più un falso. Il reportage ha ottenuto lodi a livello internazionale e vari riconoscimenti ufficiali. Un fantastico esempio, quindi, di come il fotogiornalismo possa fungere da faro nella nebbia di menzogne della post-verità? Non proprio, visto che il reportage di Bendriksen non è altro che un’elaborata “truffa”: Jonas è stato sì a Veles, ma ha solo fotografato spazi vuoti, inserendovi poi soggetti creati grazie a un software di elaborazione grafica 3D. E il contenuto scritto? Anche questo non era opera sua, bensì di una AI specializzata nella generazione di testi, “nutrita” da Bendriksen con articoli sul caso in questione.
Un falso che il suo stesso autore sperava fosse smascherato, ma che di fatto nessuno ha pensato di mettere in discussione finché Jonas non ha disseminato sui social appositi indizi in questo senso. Insomma, quella che sembrava una “semplice” inchiesta su un caso manifesto di fake news si è invece rivelata un labirinto di menzogne costruito ad arte per dimostrare quanto lo stesso fotogiornalismo sia manipolabile. Un reportage falso su un caso di fake news: sarebbe potuta andare peggio solo se l’intera storia di Veles fosse stata a sua volta inventata o se addirittura, come nel celebre caso nostrano del comune fittizio di Bugliano, che periodicamente genera indignazione sui social, Veles non fosse del tutto esistita.
E quindi, di chi ci possiamo fidare? La disinformazione è una tentazione troppo forte sia per chi la produce, perché da essa può trarre grandi benefici, sia per chi la consuma, perché in essa può trovare conferma alla propria visione del mondo, o anche puro e semplice svago a buon mercato. Se poi a questa miscela esplosiva aggiungiamo tecnologie dirompenti come i video deep fake, in cui sovrapponendo fra loro immagini preesistenti con altre create ad hoc è possibile realizzare ex novo filmati con personaggi reali come protagonisti involontari, o ancora le AI in grado di generare immagini e illustrazioni di alta qualità a partire da pochissimi input di testo, come Midjourney, Dall-E e OpenAI, si delinea uno scenario simile a una città già bombardata a tappeto, sulla quale stanno per abbattersi una serie di ordigni nucleari. Cosa rimarrà della verità in questo olocausto informativo, in cui è facile immaginarsi AI in grado di produrre fake news in automatico e a ciclo continuo, con tanto di materiali audiovisivi a sup- porto? Una sola cosa è certa: uno dei campi su cui si combatteranno le battaglie più importanti dei prossimi decenni sarà quello della fiducia.
Articolo pubblicato su WU 117 (dicembre 2022 – gennaio 2023)
Foto in alto: immagine da ‘The Book of Veles’ di Jonas Bendriksen, courtesy Magnum Photos
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