MUTA IMAGO – FORME DI RACCONTO
Claudia Sorace e Riccardo Fazi hanno fondato una delle compagnie rivelazione dell’ultima ondata di novità che ha investito la scena italiana tra il 2000 e il 2008, poi sono scomparsi dai radar. O forse no? Li abbiamo incontrati a Roma in una (rara) pausa di lavoro
di Matteo Torterolo
Rivelatisi al pubblico con il folgorante (a+b)3 nel 2007, Claudia Sorace e Riccardo Fazi (rispettivamente regista e drammaturgo/sound designer, da tutti conosciuti come Muta Imago) sono scomparsi per qualche tempo dalla ribalta, per lo meno da quella nazionale, per dedicarsi alla ricerca fuori dai confini patri. Oggi, con il nuovo progetto Ashes e tanti altri nuovi lavori in cantiere, tra cui una riscrittura de Le tre sorelle di Checov, sono tornati più in forma che mai. Una delle – non moltissime – dimostrazioni che il teatro in Italia ha ancora una sua attualità, anche nel 2022.
Confesso che per un certo periodo ho avuto paura che anche voi foste rimasti vittima di quell’approccio di “restaurazione” che ha contraddistinto la scena del teatro italiano. Invece eccovi qua, per fortuna. Che è successo?
Dal 2012 al 2017 ci siamo trasferiti a Bruxelles, che è stato per noi luogo ideale di pratica, studio e ricerca; lì abbiamo lavorato sul teatro musicale, in collaborazione con strutture quali il Vooruit a Gent o il Muziek Theater Transparant di Anversa. Negli ultimi tre anni siamo stati artisti in residenza al Teatro di Roma. Un periodo intenso nel quale, complice la pandemia, abbiamo approfondito il rapporto con la dimensione sonora del nostro lavoro, ideando il progetto Radio India e il ciclo di podcast Sparizioni, che ha rappresentato l’Italia al Prix Europa. Quella che tu chiami restaurazione, purtroppo, è sempre al lavoro. Contro la paura non possia- mo che continuare a mettere in campo le forze dell’immaginazione.
Nell’ultimo vostro lavoro per la scena, Ashes, avete scelto di tornare al teatro, dopo aver attraversato linguaggi più legati a musica, movimento e danza (canti guerrieri, combattimento) e la dimensione installativa di Sonora Desert: una scelta precisa, o la tappa di un percorso non pianificato?
Sonora Desert e Ashes fanno parte di un medesimo, grande campo di indagine sul quale stiamo lavorando negli ultimi anni: quello del rapporto con il tempo e delle possibilità che le arti performative possono mettere in campo per aprire modalità altre di relazione con esso. La fisica quantistica e la fenomenologia ci dicono che il tempo lineare non esiste, ma noi continuiamo a percepire la nostra finitezza e ad averne paura, come i nostri antenati di 30.000 anni fa. In che modo il teatro può dialogare con questa paura? Non ci siamo mai allontanati dal teatro, ma è vero che ogni ricerca porta con sé l’immaginazione di forme adatte a raccontarla. Detto questo, è vero che in questa fase del nostro percorso sentiamo il forte desiderio di entrare in relazione con una tradizione precisa per metterci alla prova e per mettere questa alla prova del tempo.
Siete una delle pochissime realtà sopravvissute alla stagione di grazia dei cosiddetti “anni Zero” della ricerca in Italia: qual è la condizione di salute del teatro nel nostro Paese?
In quanto artisti, tutto quello che facciamo ha a che fare con la possibilità del desiderio, della speranza, dell’utopia. Gli anni Zero rappresentano per noi il momento degli inizi, ma ogni stagione ha le sue caratteristiche e le sue incre- dibili possibilità e difficoltà. Oggi i problemi del sistema teatrale italiano continuano a essere gli stessi di sempre e richiederebbero, per essere risolti, un intervento dall’alto da parte di figure che abbiano veramente a cuore il destino di strutture, persone, scene, spettatori e spettatrici.
Dal vostro punto di vista, quali sono le realtà, gli artisti e i luoghi che consigliereste di tenere d’occhio ai nostri lettori?
I consigli che possiamo dare muovono dall’esperienza diretta e hanno a che fare con figure, persone e contesti che stiamo incontrando in questi anni. A Roma, accanto alla molteplicità e alla ricchezza delle proposte del Romaeuropa Festival, ci sono stati il progetto residenziale del Teatro di Roma, Oceano Indiano, nato dalla mente di Francesca Corona; il lavoro curatoriale di Ilaria Mancia sul Mattatoio; la nuova direzione artistica di Short Theatre, nelle mani capaci di Piersandra Di Matteo; il lavoro dal basso che strenuamente Maura Teofili e Francesco Montagna portano avanti con Carrozzerie N.o.t. A Milano ci sembra che il nuovo corso del Piccolo stia dando finalmente l’occasione a splendidi artisti di entrare in relazione con nuovi pubblici, così come il percorso di Triennale Teatro continua ad essere foriero di nuove possibili scoperte. Sempre a Milano il Festival Danae, il Festival Far-Out e l’attività culturale di BASE sono sicuramente contesti da seguire.
So che siete entrati da poco in sala per lavorare su un nuovo progetto: potete svelarci qualche dettaglio in anteprima?
Stiamo lavorando a una riscrittura de Le Tre Sorelle di Cechov, che debutterà nella stagione del Teatro di Roma a maggio del 2023. Una riscrittura che mette al centro dell’indagine tre donne e il loro potere creativo e rivoluzionario. Mentre fuori il mondo sembra andare alla deriva, loro sognano, immaginano, ricordano con rabbia e coraggio. In un tempo che sconvolge, dominato da rotture, stravolgimenti e paure, cercano nel passato e nel futuro l’unica possibilità di pienezza, di profondità, di comprensione.
Intervista pubblicata su WU 117 (dicembre 2022 – gennaio 2023)
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