LE CITTÀ SPUGNA CI SALVERANNO?
Da un lato gli eventi atmosferici sempre più violenti e ingestibili, dall’altro i periodi di siccità prolungati: la soluzione a entrambi i problemi potrebbe stare in un ripensamento delle aree metropolitane secondo il modello della “spugna”
di Marco Agustoni
“Eh, signora mia, ormai non ci sono più le mezze stagioni”. Chi lo avrebbe mai detto che un banale luogo comune (che in realtà di comune non ha nulla, data l’eccezionalità dei fenomeni a cui allude) sarebbe suonato non tanto noioso, quanto piuttosto agghiacciante? Fra perturbazioni sempre più violente e periodi di siccità prolungati, il mutamento climatico in corso sta infatti mettendo l’umanità di fronte a una delle sue sfide più ardue. E le città, che ormai ospitano più della metà della popolazione mondiale e che, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, nel 2050 daranno casa a circa il 70% degli esseri umani, si configurano sempre di più come l’arena di questo “scontro” fra uomo e clima.
Prepararle al cambiamento in atto – che secondo alcuni è ancora scongiurabile, seppure a costo di enormi sacrifici, mentre per altri è ormai inevitabile – risulta quindi quanto mai necessario. Tra le soluzioni che si stanno facendo strada fra gli urbanisti, una delle più accreditate guarda a un modello preso a prestito dalla vita quotidiana, ovverosia la spugna. Saranno le sponge cities, ovvero le città-spugna teorizzate dall’architetto e urbanista cinese Kongjian Yu, a salvarci dal cataclisma, secondo i fautori di questa soluzione.
Questa metodologia di sviluppo urbano potrebbe infatti rispondere alle due principali sfide poste dal recente cambiamento climatico, ovvero i fenomeni meteorologici fuori scala e la siccità. Proprio come una spugna, queste città sarebbero infatti in grado di assorbire l’acqua in eccesso durante i nubifragi che oggi mettono a dura prova la tenuta di strade e reti fognarie. E, sempre come una spugna, sarebbero in grado di conservare quest’acqua per i periodi più secchi, scongiurando i razionamenti che negli ultimi anni sono diventati realtà a latitudini sempre più settentrionali.
Ma quali sono gli “strumenti” a disposizione delle città-spugna? Innanzitutto, le aree verdi diffuse. Grandi parchi, certo, ma anche piccole fasce alberate e rain garden sparsi per le metropoli. Aumentare le superfici verdi non è solo un vuoto slogan, perché i benefici sono concreti: innanzitutto il terreno ha una capacità di assorbimento molto maggiore rispetto all’asfalto, che invece non permette all’acqua di penetrare e la mantiene in superficie, rendendo più frequenti e dannose le alluvioni; in secondo luogo, sempre rispetto all’asfalto, il terreno trattiene di meno il calore, scongiurando l’aumento “artificiale” delle temperature; infine le fronde degli alberi creano preziose zone d’ombra e contribuiscono a rinfrescare ulteriormente l’ambiente. Un altro asso nella manica delle città-spugna sono le cosiddette wetlands (ovvero zone umide) urbane. Ampi spazi verdi in cui la componente acquatica è preponderante, queste aree hanno un’alta capacità di assorbimento e di stoccaggio dell’acqua, caratteristiche che si rivelano preziose sia in presenza di troppa, che di poca pioggia.
In aggiunta a queste armi “naturali”, sono allo studio innovazioni tecnologiche in grado di rendere le stesse componenti antropiche più efficienti, come per esempio asfalti con maggiore capacità di assorbimento. Certo, pianificare una città-spugna da zero è una cosa, mentre intervenire su di un tessuto urbano preesistente è sempre molto complicato. E molte di queste soluzioni hanno un loro costo, sia di implementazione, che di mantenimento. Ma in realtà, rispetto a molte altre potenziali alternative, risultano nel complesso piuttosto economiche, oltre ad avere il pregio di integrarsi in maniera organica con l’ambiente urbano, migliorandolo. L’importante, in ogni caso, è contestualizzare sempre i progetti, perché trattan- dosi di un approccio che si avvale delle risorse naturali e idrogeologiche locali, è sempre necessario conformarsi alle peculiarità del posto. In seguito all’alluvione di Beijing del 2012, la Cina ha lanciato un ambizioso progetto per trasformare la maggior parte delle proprie città in “spugne”: in prima linea troviamo vere mega- lopoli come Shanghai, Shenzen e Chongqing. Quest’ultima, in particolar modo, si è distinta per avere già reinventato quasi un quarto della propria superficie urbana per creare un sistema di drenaggio diffuso delle acque. Ma dal quartiere di Rummelsberg a Berlino fino a Seattle con il suo South Thornton Natural Drainage System, il resto del mondo non è intenzionato a stare a guardare.
Respingere l’acqua con vere e proprie muraglie di cemento ha rappresentato l’approccio d’elezione dell’uomo urbano nel corso di tutto il XX secolo. Ma si tratta di una strategia che non funziona più, come stanno dimostrando le alluvioni sempre più frequenti. Se la situazione muta, risulta vitale mutare con essa. Come suggeriva il filosofo cinese Laozi, bisogna essere come l’acqua che si adatta all’alveo del fiume in cui scorre. Solo che, in questo caso, siamo noi a doverci adattare all’acqua.
Articolo pubblicato su WU 125 (aprile 2023)
In alto: foto di Daniel Welsh da Unsplash
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