IRVINE WELSH – CHOOSE ANALOG
Sarebbero tantissime le domande da fare allo scrittore scozzese, punto di riferimento culturale di almeno due generazioni. Avendo però a disposizione solo il tempo di un’intervista, è necessario darsi delle priorità. Del resto, parliamo di un maestro nell’arrivare al punto
di Giuliano Deidda
L’occasione per incontrare Irvine Welsh, scrittore seminale non solo per chi ha vissuto gli anni Novanta o ha adorato Trainspotting, arriva grazie alla presentazione di How No degli Stereocalypse, duo veneto formato da Olderic e Andrea Doria che ha pubblicato questo brano con l’etichetta Stolen Goods e a cui Irvine Welsh ha collaborato con la propria voce. Non è la prima volta per lui: il suo debutto su un brano risale al 1996 grazie ai Primal Scream. Una vita fa, insomma. Qualche ora prima della serata che l’ha visto protagonista in consolle per un dj set al Tempio del Futuro Perduto, l’autore ci ha dato il suo punto di vista come sempre interessante su musica, passato e futuro.
Sei uno dei protagonisti principali degli anni Novanta. Si è trattato di un momento magico dal punto di vista culturale per la Gran Bretagna, un apice mai più toccato. Cos’è andato storto a un certo punto?
Sì, è quasi buffo ripensarci, perché abbiamo fatto rotolare via tutto. Si è trattato di un conglomerato di elementi diversi. Musicalmente c’erano diverse realtà interessanti. Da un lato la faida tra Blur e Oasis sembrava aver riportato in auge il clamore di quella dei Beatles con i Rolling Stones, e contemporaneamente c’era una scena clubbing eccezionale legata alla musica house. È stato l’ultimo momento nel quale il nostro Paese è stato un punto di riferimento della street culture. Si è trattato di una celebrazione della Gran Bretagna, ma è stato anche il capolinea. La ragione è molto semplice, l’arrivo di Internet, con l’illusione che le cose succedano contemporaneamente in tutto il mondo. Una delle conseguenze è che è stata la musica a pagare il prezzo più alto.
La musica è un elemento fondamentale nei tuoi lavori. Che ruolo ha invece nella sua vita privata e della tua quotidianità?
Non solo fa parte di tutti gli aspetti della mia vita, ma è fondamentale nella quotidianità di tutti. Si tratta di un elemento culturale essenziale, senza la quale il cinema, la TV e l’arte sarebbero molto diversi. La mia visione è sicuramente condizionata dal fatto che da ragazzino ero ossessionato da David Bowie. Era un personaggio incredibile, la sintesi perfetta di tutto, il soul, l’elettronica tedesca, il punk. Incarnava tutto, era eccitante. Riusciva a interpretare con la sua musica qualsiasi influenza gli arrivasse dai libri, dall’arte o dalle persone.
Parliamo di How No, il brano degli Stereocalypse a cui hai collaborato. Come è nata l’idea?
Il merito è di Augusto Penna, promoter di Napoli con cui ho un rapporto di amicizia da anni. Nel 2022 ha pubblicato Fatti. Fummo – Diario di una stupefacente quarantena, un libro di cui ho scritto la prefazione. Quando sono venuto a Milano per la presentazione del volume, Augusto mi ha dato un remix di Smalltown Boy dei Bronski Beat realizzato dagli Stereocalypse. Mi ha colpito subito e ho iniziato a inserirlo nei miei dj set, avendo la conferma che faceva alzare la gente. Quello che mi piace quando metto la musica nei locali è proprio provocare le reazioni delle persone, vedere cosa le fa andare in pista e cosa no. Quando Augusto mi ha chiesto di fare qualcosa con loro ho detto subito di sì. Allora Olderic e Andrea mi hanno mandato il demo di How No e ho iniziato a pensare a come inserirmi. L’idea mi è venuta su un double decker a Edimburgo. Sono salite a bordo due ragazze terribili, sui 18 o 19 anni. Hanno iniziato a urlare e gesticolare, mentre sparlavano del ragazzo di una delle due. In pratica, queste ragazze hanno scritto il testo della traccia al posto mio, recitando tutta una scenetta, con parti di finto accento americano mischiato a quello scozzese. Avrei voluto registrarle, ho anche provato a farlo, ma alla fine ho cantato al posto loro.
Qual è la differenza tra le scene musical-culturali del passato, a partire dal punk, e quelle underground contemporanee, ammesso che esistano?
Sta tutta nella modalità con cui le persone recepiscono le sottoculture. Nell’era analogica, quando succedeva qualcosa era in genere molto d’impatto, i Pink Floyd, per esempio. Ero alle superiori quando è stato pubblicato The Dark Side Of The Moon, mi piaceva tanto da impazzire. A pensarci oggi, si tratta infatti di un album senza tempo, non importa che sia datato 1973, perché è immortale, patrimonio di tutti. Devo dire che sono stato fortunato che il treno di Trainspotting sia passato in quel momento, come parte dell’ultimo fenomeno dell’era analogica. A quei tempi, se un artista o una band, di qualsiasi genere o sottogenere, riusciva a partecipare a Top Of The Pops era fatta.
Cosa impedisce oggi l’uscita di un altro The Dark Side of the Moon?
Oggi è molto più complicato. Nessuno può permettersi di pubblicare un singolo in 200 mila copie per essere notato, non funziona più così. Tutta la bella musica, ma anche i film e i libri di qualità contemporanei purtroppo non diventeranno mai immortali, a causa della velocità della comunicazione digitale. Voglio vedere però dei segnali di ripresa. Non so se conoscete i Kneecap, un trio di West Belfast che rappa in gaelico. Sono fortissimi, hanno una vera attitudine punk. È un progetto emerso da una comunità molto isolata, particolare, come può essere West Belfast, e che si è diffuso in tutto il mondo. Credo che a molte persone non basti più quello che viene fuori da internet, studiato solo per guadagnare soldi. Prevedo un ritorno della ricerca di autenticità.
Nella foto in alto: Irvine Welsh, foto di Kate Green