VENEZIA 82 – CHARLIE KAUFMAN ED EVA H.D.
Charlie Kaufman è tornato con un cortometraggio, How to Shoot a Ghost, presentato all’ultima Biennale di Venezia
di Davide Colli
È da cinque anni che non vediamo un lungometraggio che porti la firma di Charlie Kaufman, autore (prima sceneggiatore, ora anche regista) dietro Synecdoche, New York, Anomalisa e Sto Pensando di Finirla Qui, nonché penna dietro gli script di Essere John Malkovich e Se Mi Lasci Ti Cancello. L’annuncio a Venezia di un nuovo progetto che lo vede coinvolto ha preso quindi più persone in contropiede. Nella fattispecie si tratta del cortometraggio How to Shoot a Ghost, una storia di due giovani fantasmi che si ritrovano a vagare per le strade di Atene. A firmarne la sceneggiatura è Eva H.D., autrice e poetessa già sua collaboratrice per il corto Jackals and Fireflies.
Da cosa nasce lo spunto per questo cortometraggio?
Charlie Kaufman: Abbiamo fatto questo corto, Jackals and Fireflies, basato su un componimento scritto da lei e abbiamo pensato di collaborare di nuovo assieme. Eva in quel momento si trovava in un collettivo artistico queer ad Atene.
Eva H.D.: In questo collettivo c’è spazio per ogni tipo di forma d’arte, dalla performance fino a proiezioni di film oscuri e sconosciuti, insomma tutto quello che abbia un legame con il mondo artistico queer e la città di Atene. C’è anche una residenza artistica nel centro città, nella quale una persona per volta può lavorare al proprio progetto negli spazi del collettivo. Mi sono guardata intorno, sono rimasta ispirata dalla città e ho coinvolto Charlie nel progetto.
Charlie, il tuo ultimo lavoro è stato Jackals and Fireflies, ed è appunto la vostra prima collaborazione. Cosa trovi di unico nel format del cortometraggio che magari nel lavoro su un lungometraggio si va a perdere?
C.K.: Credo tu possa adottare un approccio più sperimentale col cortometraggio, sostanzialmente puoi fare quello che vuoi perché non è un progetto dal quale nessuno ricaverà soldi. C’è una ricerca decisamente meno stressante di fondi di finanziamento e mancano le star a recitarci. Parlando proprio di Jackals and Fireflies, Eva ha scritto inizialmente il poema e, durante la pandemia, mi ha mandato una registrazione vocale del testo e l’ha trasformato in musica. Mi piacque molto e ho immediatamente cercato di pensare a come tradurlo in immagini. Mi sono posto subito domande come: “Come posso trasformare una poesia in un film?”; “Come posso lavorare con qualcosa di non convenzionalmente narrativo?”. Non avevo idea di come procedere e questo mi ha appassionato molto.
Il corto, fin dalla citazione iniziale di Toni Morrison, è in qualche modo legato al tema della posterità e dell’eredità. Quali sono i vostri pensieri su questo concetto, che sembra essere sempre più abbandonato dalle nuove generazioni?
E.H.D.: Non credo ci sia la necessità di compiere ogni azione in nome della posterità. In questo caso il film esplora la consapevolezza di non poter possedere certi artefatti della città attraverso lo scatto di una fotografia. Probabilmente nel tuo cellulare hai migliaia di fotografie senza alcuno scopo. Non le porterai con te nella tomba ed è probabile che dopo la tua morte nessun altro possa riesumarle. Perché quindi continuiamo a voler scattare fotografie e accumularle? Sicuramente ci piace come sensazione. Magari quando vediamo un arcobaleno vogliamo provare a possederlo dentro una fotografia, ma non possiamo.
C.K.: Nel momento in cui registri o provi a catturare un certo fenomeno, è come se ti estraniassi e non fossi presente davvero nel momento in cui avviene l’esperienza. Stai provando a fare qualcos’altro.
E.H.D.: Per esempio c’è un ragazzo che abbiamo incontrato su un vaporetto per arrivare qua al Lido. Era un giovane sceneggiatore. Ha riconosciuto subito Charlie e gli ha chiesto una foto. Charlie ha rifiutato e ho aggiunto che il nostro film (How to Shoot a Ghost, NdR) parla in qualche modo anche di questo. È incentrato sul provare a ricordare in altre maniere, preferire l’esperienza vissuta a quella mediata dalla fotografia. Dovresti provare a fotografare questi momenti con la “fotocamera della tua anima”. Personalmente tendo a dimenticare ciò che fotografo perché lascio far tutto alla fotocamera. Quando voglio ricordare effettivamente qualcosa, non posso essere così passiva. Non c’è spazio per l’interazione col mondo circostante.
Un’illusione di possesso che, con i mezzi digitali che possediamo ora, diventa un’idea ancora più immateriale e fragile.
C.K.: Se posso aggiungere un elemento strano alla conversazione, in questo momento mi sento di star vivendo un deja vu. Mi sento di aver già sentito questa domanda da te, in questa esatta stanza. E proprio per la natura della domanda mi sembrava davvero strano. È come se questo un momento esistesse da sempre.
Charlie, cosa significa per un professionista nato come sceneggiatore provare a rendere visivamente “catturare” qualcosa di invisibile, di un’assenza?
C.K.: Per me si tratta di provare a comprendere in maniera meno letterale, come ho tentato con questi due cortometraggi, come comunicare un concetto visivamente. Sono stato notevolmente influenzato dalla poesia di Eva e l’ho trovata in generale una sfida incredibilmente stimolante. Trovare quindi una soluzione visiva non immediata è un problema su cui, in quanto filmmaker, voglio continuare a migliorarmi. Cos’è allusivo e cosa non lo è? Cosa è presente e cosa invece no? Non ho una vera e propria risposta, ma è gratificante avere l’opportunità di fare pratica con l’associazione tra concetti e controparte visiva. Questo è un altro aspetto positivo nel lavorare a un cortometraggio, puoi allenarti più facilmente.
E.H.D.: In qualche maniera anche Se Mi Lasci Ti Cancello parlava di questo concetto. Devi sapere che Charlie è un eccellente fotografo astrattista. Immortala un oggetto senza pretesa di raccontare una storia o preservare un ricordo, ma lascia che lo spettatore abbia lo spazio di dare la propria interpretazione emotiva a ciò che vede. In qualche modo richiamo il sentimento della saudade portoghese, una complessa combinazione di intenso desiderio e malinconica nostalgia.
C.K.: Anche con il film proviamo a dare allo spettatore la possibilità di “interagire” con esso, di trovare un proprio significato alle immagini e al fiume di parole e perdersi in esso. Abbiamo parlato spesso dei film di Bela Tarr, in cui il pubblico può avere un’esperienza personalissima in questi lunghi e distesi momenti che il film regala. I suoi film non ti dicono dove guardare o cosa pensare. È come se il film si aprisse a te e tu avessi completa libertà di come fruirlo. La pittura riesce a raggiungere ciò, ma anche la buona poesia. Avere una propria esperienza interconnessa con quella dell’artista. Credo sia l’unico obiettivo che un artista debba avere, ma anche quello che mi pongo in quanto fruitore.
Nelle foto:Eva H.D. e Charlie Kaufman, credits Jacopo Salvi/La Biennale di Venezia – Foto ASAC