SIMULACRA
Scattate tra zoo, musei e parchi nazionali americani, le immagini di Peter Fisher indagano il rapporto tra la natura reale da cui siamo ormai disconnessi e le sue riproduzioni artificiali
di Alessandra Lanza
Come e quando è nato il progetto Simulacra?
Un paio d’anni fa, durante un inverno particolarmente freddo a New York. Trascorrevo molto tempo al chiuso e mi sono accorto che il mio principale veicolo di contatto con la natura erano i social media e gli zoo, musei e parchi in città. Quando si passa troppo tempo in questi luoghi artificiali e costruiti, il contatto con la realtà inizia a sfuggirci. I diorami del Museo di Storia Naturale per me rappresentano in pieno quest’idea: ho visto bambini affascinati da animali imbalsamati e piante di plastica dietro alle teche di vetro come fossero veri.
Natura e animali sono temi frequenti nei tuoi scatti. Da dove arriva questa fascinazione?
Prima di trasferirmi in città, cinque anni fa, la mia vita era molto diversa. Vivevo in Colorando e passavo la maggior parte del mio tempo tra escursioni e campeggio. Devo ancora abituarmi a vivere all’ombra dei grattacieli, anziché delle montagne. Ho trascorso gran parte della mia infanzia all’aperto, con sei cani e otto gatti. La natura è sempre stata una presenza costante. Che ci piaccia o meno, la nostra esistenza sul pianeta è inscindibile da quella di piante e animali, e non posso fare a meno di rappresentarlo nella mia fotografia.
Hai l’abilità di fare fotografie tridimensionali, in cui si mescolano diversi livelli di realtà grazie a un uso “scientifico” di flash e prospettiva, distintivo della tua estetica. Nel rifinire la tecnica è stato più importante lo studio o la pratica?
La pratica è sempre stata la cosa più importante, soprattutto in fotografia: posso avere in testa un piano e un’immagine precisi, ma quando poi arrivo sul posto con la macchina in mano può succedere di tutto.
La luce contribuisce alla tridimensionalità. Lavorare al chiuso, per Simulacra, con luci prevalentemente artificiali, è stato difficile? Che altri limiti hai incontrato?
Sì, i musei sono molto bui, e non potendo usare il cavalletto ho dovuto sforzarmi di rimanere immobile, trattenendo il respiro. Per fortuna tutto è imbalsamato o di plastica, quindi non scappa. Anche nei parchi nazionali ho avuto difficoltà: per replicare l’illuminazione degli sfondi dei diorami, ho dovuto scattare in una minima finestra di tempo, all’alba e al tramonto – invece della classica “golden hour”, direi i “golden five minutes” – camminando e arrampicandomi al buio con una torcia in testa. Può essere molto pericoloso.
L’atmosfera in Simulacra è onirica e veicolo per la meditazione filosofica. Nel tuo lavoro, in generale, c’è anche una volontà di sensibilizzare lo spettatore a temi legati al clima, e se sì, pensi possa essere più efficace delle crude immagini di catastrofi naturali?
Parlando con alcuni amici, ci siamo immaginati un tempo in cui l’unico modo per sperimentare un determinato ecosistema o vita animale siano la realtà virtuale o luoghi privi di qualsiasi elemento selvatico. Capire che stiamo andando in quella direzione è terrificante. Non direi sia più efficace dell’immagine diretta di una catastrofe, ma penso che ormai a quel tipo di fotografie siamo diventati insensibili.
Nel tuo feed Instagram c’è poco spazio per il bianco e nero, in favore di colori vibranti. Scelta precisa o inclinazione naturale?
In realtà scatto un sacco di immagini bianco e nero, che poi non condivido, per insicurezza. Mi sembra assomiglino a quelle di tanti altri fotografi e che la mia voce si perda. Spero di superarla un giorno. Il colore è una delle ragioni principali per cui accosto l’occhio alla macchina fotografica, è un grande pezzo del puzzle.
Affronti ritratti e still life in modo differente?
Mi piace pensare di affrontarli allo stesso modo. Che si tratti di un albero, di un leopardo o di una persona, mi interessa trovare il modo per rivelarne la personalità unica. Il modo in cui un ramo si piega per prendere la luce e il gesto particolare di qualcuno mentre parla sono la stessa cosa.
Dopo Simulacra hai iniziato a lavorare a qualche nuovo progetto? Sarà dedicato alla natura?
Ho in ballo un paio di progetti rallentati dalla pandemia che usciranno presto e un altro paio appena iniziati. Due lo saranno, è difficile evitare la natura. Spero anche di poter coprire molte più storie legate al cambiamento climatico.
PETER FISHER Classe 1991, vive a New York ed è fotografo documentarista, ex digital photo editor per “The New Yorker” e collaboratore di “Time” e “The New York Times”. Si è diplomato in cinema all’Università del Colorado e in Documentary and Visual Journalism presso l’International Center of Photography di New York. Il suo sito è peterfisherphoto.com.
Intervista pubblicata su WU 104 (ottobre novembre 2020). Tutte le foto nella pagina sono di Peter Fisher
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