PANDEMIC STAINS
Sulle tracce del virus, il progetto fotografico ‘Pandemic stains’ ha avuto un grosso impatto mediatico, finendo su reti televisive pubbliche e private e su quotidiani e periodici nazionali. Qui Marco Casino, che con Pietro Baroni ha realizzato questo progetto fotografico, ci spiega come è nato e come continuerà
di Emma Cacciatori
Pandemic Stains è il progetto fotografico di Marco Casino e Piero Baroni che, durante il primo lockdown, hanno fotografato luoghi pubblici e privati con il supporto della luce ultravioletta multi-spettro, tecnica che ha permesso loro di mettere in evidenza le tracce che lasciamo nei posti che frequentiamo e negli oggetti che tocchiamo. Il progetto in questi mesi si è evoluto: diventerà presto un libro grazie a un crowdfunding e si è declinato in una serie di eventi, mostre e riflessioni pubbliche per indagare su ciò che non vediamo, ma che è parte della nostra quotidianità.
Come è organizzato Pandemic Stains?
Pandemic Stains è diviso in categorie (case, oggetti, luoghi di lavoro…). Sono dei cluster nati attraverso quelle che erano le prime linee guida degli enti sanitari di vari livelli, internazionali e nazionali, che segnalavano obiettivi sensibili virtualmente a più alto rischio epidemia. Con Pietro ci siamo resi conto che, utilizzando la luce ultravioletta multi-spettro, potevamo creare un effetto di immedesimazione in queste potenziali “scene del contagio” e quindi abbiamo lavorato sul differenziare, per esempio, case diverse. Ci sono case nuove, case vecchie, case con animali, case con bambini. Rispetto a chi ne fruisce, di base, trovi delle macchie diverse. Quindi in queste fotografie, anche se non si vedono persone, c’è tutto quello che lasciano.
Qualche altro esempio?
Dopo le case abbiamo fotografato i belongings, gli oggetti che ci appartengono. Poi le numerose scrivanie di un coworking, un bagno sanificato più volte in un giorno, una tastiera di un ufficio, una ferramenta, oppure i segni di un cane su una porta di casa. Insomma, le classiche scene che chiunque può vedere ogni giorno. Sono tutti scatti vecchi, fatti durante il primo lockdown.
Qual è la reazione classica di fronte a questo tipo di immagini?
La cosa secondo me interessante di fronte a queste immagini è che in realtà ti rendi conto che, anche se ti fanno schifo, in qualche modo ti fanno impressione, ti fanno riflettere, dici: «Oh, cazzo, dove sto vivendo? Dove sono, in generale, durante la mia giornata?». E ti rendi conto che non c’è differenza tra un positivo e un negativo, tra un poliziotto e un manifestante: siamo tutti esseri umani, fragili allo stesso modo.
Come reagivano le persone quando tu e Pietro andavate a fotografare i loro luoghi?
Malissimo. In alcuni posti ci hanno provato a fare denuncia e hanno cercato di bloccare le foto. Di fatto noi non pubblichiamo i nomi e i luoghi. E quando pensiamo che un ambiente sia troppo riconoscibile, anche solo come zona della città, mettiamo dei nomi falsi, per proteggere la fonte. Quando, invece, i proprietari ci accolgono, significa che hanno capito il messaggio, anche se la maggior parte delle persone non ci ha permesso di scattare e quindi abbiamo dovuto procedere molto lentamente.
Cosa intendi con «capire il messaggio»?
Il punto qui è mettere in discussione la nostra percezione, perché in realtà il nostro sistema sensoriale è fallace e molto limitato. In generale, va sfatata l’idea che siamo completamente invincibili e che sopravviveremo. In realtà siamo molto più deboli di quello che immaginiamo, come individui e come specie e queste immagini ne diventano una rappresentazione visiva piuttosto chiara in un momento storico niente affatto chiaro.
Dopo aver fotografato tutte queste “verità nascoste”, tu, come vivi la tua vita di tutti i giorni?
Bene. Mio padre è medico, io sono cresciuto convivendo serenamente con i batteri e, in generale, “lo sporco”, . Fortunatamente la condizione in cui sono nato mi ha dato la possibilità di fare dei ragionamenti forse meno immediati di chi invece la medicina l’ha sempre vissuta in maniera in qualche modo esterna. Ovviamente il modo di vedere e di percepire le cose di mio padre mi ha influenzato tantissimo. Una cosa molto classica: a casa mia ci sono sempre stati i farmaci scaduti. Di solito li prendevamo senza problemi, anche perché hanno delle date di scadenza che dire preventive è poco. Sono pochi i farmaci di uso quotidiano che vanno a male alla data di scadenza indicata. Poi mio padre ci faceva fare quello che volevamo, ci ha fatto convivere con lo sporco in maniera serena. Sporco inteso come qualsiasi cosa arrivi da un ambiente che non sia casalingo, abitato da persone. In realtà, quello che a noi consegna lo sporco è in buona parte quello che ci circonda, la natura..
Il prossimo obiettivo con questo progetto quale sarà?
Ce ne sono tanti. Stiamo facendo delle attività con le scuole. Si tratta di incontri gratuiti per istituti tecnici e d’arte in tutta Italia online, come webinar, massimo 500 partecipanti alla volta da ciascun istituto. Per organizzare questi lavori siamo stati obbligati (nemmeno lo avevamo pensato) a creare un’associazione culturale. Abbiamo chiuso ora la campagna di crowdfunding che ci permette di coprire tutte le spese che abbiamo affrontato per Pandemic stains, come stampare il libro e altri lavori tra cui anche i fiori di Ultra Flowers, realizzati con inchiostro ultra violetto e quindi andare in pari. Diciamo che non andiamo proprio in pari, ma va bene lo stesso.
Come pensate di continuare l’attività di questa associazione culturale che avete creato?
Con questa associazione culturale, in cui non siamo più solo io e Pietro ma ci sono più persone che fanno cose diverse, l’idea è quella di organizzare una grossa mostra a tema “Invisibile ma reale”, con incontri con le scuole, che raccolga esperienze diverse, da campi diversi, che di solito si parlano poco o nulla, a Milano ma anche a livello internazionale. Per creare hype di tutto stiamo facendo una campagna su TikTok, con una mini redazione, dove io e Pietro non ci siamo proprio, ma sono presenti gli alunni che ci mandano i video dalle convention. Stiamo vedendo delle persone under 20 con una spiccata attitudine alla narrazione e al giornalismo, che hanno una serie di skill che fanno parte del progetto in qualche modo.
Parlavi, in particolare di Milano?
Esatto. A fine gennaio, anche se non lo abbiamo stato ufficializzato, apriremo una mostra in Duomo con Leica. L’idea è quella di creare un circuito per cui questa mostra possa anche viaggiare in parallelo con le attività dell’associazione culturale, con un’ impostazione sempre bottom up, perché questo ha caratterizzato il processo da Pandemic Stains in tutte le soluzioni presenti e future. Stiamo provando a creare una nuova entità, consapevoli dei rischi e di tutte le sfide che un’operazione del genere comporta nel 2021. Pensiamo però di mostrare in modo più esteso del solito delle metodologie che già esistono, ma che solitamente sono relegate a dei settori abbastanza piccoli, come quelli controculturali o accademici. Non si tratta di creare del nuovo, ma di mettere in piedi un evento che possa fungere da attivatore per chi ne fruisce, per prendere coscienza di alcune tematiche che sono già parte del presente e anche del passato recente ma di cui in genere si ha una conoscenza molto relativa.
Qualcosa di molto ambizioso…
Credo proprio che, grazie alla forza liberatrice della tecnologia, sia possibile creare dei movimenti in maniera molto diversa da quelli che sono nati anni fa. Noi abbiamo pagato un euro di in sponsorizzazioni e siamo finiti a parlare al TG1 e a fare tante altre cose. La nostra sfida vuole essere piccola, perché alla fine sarà piccola, ma potrebbe diventare una scintilla attizzatrice su alcune tematiche correlate a tutto quello che non riusciamo a vedere nel quotidiano. La pandemia è un po’ il pretesto per aprire questo discorso, ma la narrativa principale è quella del rapporto tra uomo e tecnologia, con le sue sfaccettature che coinvolgono il processo democratico oggi, l’ambiente e tutte le sue applicazioni possibili.