NEL CUORE PULSANTE DI NEW YORK CON ‘PRETEND IT’S A CITY’
Scorsese dipinge New York attraverso gli occhi e le parole di Fran Lebowitz, mettendone in luce l’istrionica personalità in Pretend it’s a city
di Davide Colli
Un flusso di coscienza straripante, un modello di intervista espanso, il cui oggetto diventa l’entità che prende le redini dell’intera operazione. Pretend it’s a City, l’ultima fatica di Martin Scorsese, ancora targata Netflix, sembra, a primo acchito, stabilirsi su binari e ritmi documentaristici convenzionali, mentre invece si dimostra di dubbio incasellamento nel lungo termine, alla conclusione dei sette episodi di questo corposo documentario che supera le tre ore di durata.
Per l’edizione italiana il titolo è stato tradotto come Fran Lebowitz: una vita a New York, mettendo in primo piano la personalità strabordante e graffiante dell’iconica autrice americana piuttosto che quella del famoso regista. Scorsese aveva già dedicato un documentario dedicato alla scrittrice statunitense, intitolato La Parola a Fran Lebowitz, prodotto da HBO e distribuito ormai undici anni fa, oltre ad averle fatto fare un piccolo cameo all’interno di The Wolf of Wall Street.
La sua satira puntuale sulla società americana e il suo spiccato senso dell’umorismo l’hanno resa una delle figure più significative della letteratura americana di tardo Novecento. A cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Novanta incontra un periodo decisamente prolifico della sua carriera, che la vede inizialmente come redattrice della rivista di Andy Wahrol “The Interview”, per poi rendersi indipendente ed arrivare alla pubblicazione dei suoi primi libri. Dai primi del 2000 secolo non riesce a sfuggire da un ammorbante blocco dello scrittore, che la costringe a rinnovarsi in vesti inedite, come quella di oratrice pubblica e di attrice occasionale.
Nel confrontarsi con l’ondata di opinioni, idee e suggestioni su ogni argomento immaginabile suggellati da Fran Lebowitz e che si abbattono prepotentemente sulla macchina da presa, Scorsese predilige un approccio più sobrio: la sua mano apparentemente sembra adagiarsi, scomparire, ma all’interno di questo documentario la sua presenza è vivida e tangibile e la prima traccia di essa è proprio la sua fragorosa e interminabile serie di risate, colonna sonora ideale dell’intero progetto.
Se Pretend it’s a City rappresenta lo one woman show della roboante personalità di Fran Lebowitz, il merito va spartito con l’inebriante palcoscenico sul quale si svolge questo piacevole monologo, niente di meno che la Grande Mela, raccontata dalle elucubrazioni di una donna che ne ha fatto la sua principale fonte di spinte e propulsioni creative e ripresa dall’occhio di un uomo che l’ha resa il centro nevralgico di una solida parte della propria filmografia.
New York, in entrambi i casi, è stato il brulicante nido che ha plasmato due figure tra le più stimate e celebrate nei rispettivi ambiti artistici; una metropoli scheggiata, che più volte ha cambiato e che conserva i segni delle epoche trascorse, ma che ancora oggi, in un momento storico governato dall’onnipresente tecnologia (tanto detestata dalla protagonista del film), conserva uno status di paradiso di eterogeneità culturale e sociale da sprizzare fascino anche dai suoi più rovinosi pori.
Pretend it’s a City si presenta, quindi, come un adorabile viaggio in una città dalla doppia faccia, la cui leggerezza non si traduce direttamente in superficialità, ma va a comporre un affresco di un’America in evoluzione, sicuramente diversa dalle immagini che, negli ultimi tempi, popolano i tabloid dell’intera websfera.
Nella foto in alto: Fran Lebowitz in un momento di ‘Pretend it’s a city’, courtesy Netflix
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Davide Colli
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