LA SPLENDIDA DISILLUSIONE DI WOODY ALLEN IN ‘RIFKIN’S FESTIVAL’
Dopo un rinvio causa Covid-19, Rifkin’s Festival, l’ultima fatica del celebre autore statunitense, trova finalmente il suo pubblico. Cast coem al solito d’eccezione, con Wallace Shawn, Louis Garrel, Gina Gershon, Elena Anaya e Christoph Waltz
di Davide Colli
Tra gli innumerevoli criteri (più o meno sindacabili) tramite i quali si è in grado di giudicare la rilevanza di una determinata opera vi è senz’altro il livello di aderenza tra il contenuto filmico (da un punto di vista narrativo, ma non solo) e il vissuto dell’autore, colui che infonde ragion d’essere al progetto. Rifkin’s Festival non fa certamente eccezione: nella sconfinata filmografia di Woody Allen non si può dire che tale incidenza tra reale e finzione non avvenga con larga frequenza, a cominciare dal vasto elenco di alter-ego che popolano la gran parte dei lungometraggi da lui scritti e diretti.
Uomini di un certo acume intellettuale, succubi di ansie e ossessioni provenienti dal secolo scorso, costituiscono l’archetipo per eccellenza del regista americano. In questa ultima pellicola di Allen Mort Rifkin (interpretato da Wallace Shawn, che finalmente viene riscoperto in un ruolo da mattatore) rientra perfettamente nel suddetto canone: un individuo perennemente fuori posto nel mondo reale dal quale viene rigettato a più riprese.
In Rifkin’s Festival Allen si diverte a osservare vagare i suoi protagonisti al Festival di San Sebastian, suadenti grazie anche alla fotografia di Vittorio Storaro. All’interno delle colorate vie della città basca prende luogo la progressiva presa di coscienza di Mort Rifkin sulla soluzione da adottare al rifiuto che sembra ricevere da più agenti, in primis da una moglie (Gina Gershon) pronta a cadere da un momento all’altro tra le braccia di un giovane e presuntuoso regista (Louis Garrel). Il rimedio, dopo il fallito tentativo di fuga compiuto in un’insignificante e inconclusa avventura con una dottoressa del posto (Elena Anaya), si rivela essere il cinema stesso.
Il pensionato professore ha dedicato una porzione non indifferente della sua esistenza alla settima arte, a dimostrazione dei numerosi inserti citazionistici (si spazia da Truffaut a Bunuel, ma anche Bergman e Fellini, per elencare i riferimenti più palesi) che si limitano al ruolo di semplici e deliziose visioni d’accompagnamento, senza essere fattori narrativi determinanti come, per esempio, lo sono stati in altre pellicole di Woody Allen (Stardust Memories e La Rosa Purpurea del Cairo su ttutte).
Il parallelismo con le vicende recenti dell’autore appare immediato, forse premeditato, ma sicuramente non allevia la potenza testamentaria di Rifkin’s Festival. Mort altro non è che un iper-personaggio, che in se stesso contiene l’intero campionario di doppi alleniani, nel quale è implementata un’inedita consapevolezza, frutto di un’evoluzione impercettibile ma sostanziale nel corso dei vari passaggi di testimone. Mort Rifkin incarna l’ultimo livello di disillusione di Woody Allen, che rende Rifkin’s Festival un malinconico gioco cinefilo, ma anche un rifugio in un mondo caldo e accogliente come solo il cinema sa essere.
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