MELTING POD SALAD
Una rivoluzione perlopiù verde che parla diverse lingue, un piatto che oggi è soprattutto un racconto multiculturale che va oltre i confini della nostra geografia gastronomica, capace di risvegliare come pochi i ricettori del gusto
di Martina Di Iorio
Metti una sera un rafano, del filetto di manzo, un dressing dal nome impronunciabile. Metti anche che sei in centro a Milano, o in un casolare abruzzese, ti trovi a casa oppure lontano, e improvvisamente perdi le coordinate a cui si ancora il tuo gusto. Ancora non sai bene cosa sia successo in bocca, che cosa sia stato a scatenare quel terremoto alle papille gustative, ai neurorecettori che pensavi sopiti e addomesticati, e invece ora trasmettono e registrano questa nuova esperienza sensoriale. Parte dal cervello, ma ancora prima dalla bocca e si connette direttamente con il cuore.
E non parliamo di feticci gastronomici, di rarità da vecchio e panciuto critico con la bocca più veloce della penna. Non ricerchiamo opulenza, grassezza, rotondità e sostanza, non troverete in queste righe maialini da latte, perle di caviale o anatre glassate. Qui si parla di quel mondo vegetale che a volta abbraccia anche la sua antitesi, di quelle portate che – a ragione sempre più valutate e considerate – si stanno guadagnando la luce che meritano nelle nostre tavole. Non chiamatele insalate, per favore, che fa così anni Novanta con quelle riviste di food che le hanno gettate in ombra e relegate sminuendole a mero cibo salutista, cibo penitenza, dopo grandi vizi.
Invece, piano piano, le nostre “insalate” hanno fatto a spallate, si sono reinventate, ingrassate, alleggerite, colorate, influenzate con altre culture e tradizioni. Sbagliate se pensate che il multiculturalismo passi sì dalle tavole ma solo attraverso piatti globalizzati come il sushi, il kebab, l’hamburger, o alimenti come l’avocado, fino a poco tempo fa sconosciuto nel nostro Paese. Il mondo senza confini e barriere che molti di noi sognano passa dall’alto al basso, dalle trattorie ai bistrot fino ai locali stellati, anche in piatti che da semplici contorni o “side” diventano apripista per un nuovo vocabolario e una nuova geometria del pasto.
Non a caso se sentite parlare di foraging d’erbe, se sentite nominare il Noma di Réne Redzepi, se sentite parlare cinese insieme al francese in un piatto, usare tecniche inconsuete, non rimanete stupiti. Sappiamo che al netto della retorica del marketing – anche gastronomico – che vuol far dialogare tutto con tutto, c’è un vero e proprio movimento che a tavola, nelle ricette, in poche parole nel gusto condiziona e si fa condizionare da tradizioni lontane ma vicine.
Come da Carico, un locale che non si riesce subito a definire perché travalica etichette e luoghi comuni. Un cocktail bar, certamente, tanto che è stato premiato come migliore Bar dell’anno 2021 per la Lombardia dal Gambero Rosso, ma anche un bistrot contemporaneo che mira all’essenziale, al gusto e al sapore. Domenico Carella, bartender, insieme ad Angelica Baldan al bancone, e allo chef Leonardo D’Ingeo, riescono a far dialogare cucina e cocktail bar senza – apparentemente – alcuno sforzo. E proprio con Leonardo abbiamo scambiato due chiacchiere per la sua spiccata vocazione al mondo vegetale, alle diverse contaminazioni della sua carriera, ai differenti sapori che porta dentro i piatti. Ricerca approfondita delle materie prime, sapiente trasformazione dei singoli ingredienti, con un magnifico utilizzo delle fermentazioni, delle estrazioni, in un’ottica di zero waste. «Amo lavorare con i vegetali, mi divertono molto, in ogni piatto cerco di unire tutte le diverse esperienze che ho fatto. Ho un cuore pugliese, ma ho studiato in Francia e cerco di unire questi mondi differenti nei miei piatti. Uso moltissimo le salse, infatti, che vado a bilanciare con l’acidità creata dalle fermentazioni». Come la sua melanzana fermentata e bruciata, semi di chia fermentati al rafano, coriandolo, parmigiano e fiori di pisello sottaceto. Un tripudio di contaminazioni gastronomiche e culture differenti.
Rimanendo a Milano troviamo un altro locale simbolo di contaminazione culturale. Bon Wei, infatti, è un ristorante gourmet cinese con una missione ben precisa: far scoprire l’alta cucina cinese attraverso i piatti dello chef Zhang Guoqing. Nello specifico la cucina Su, in una regione costeggiata per oltre 1000 chilometri dal Mar Giallo, che della freschezza delle materie prime – lasciate il più possibile al naturale, con pochi condimenti, sale o zucchero – fa uno dei suoi punti chiave. Minuziosa l’attenzione all’armonia dei colori nel piatto e l’esecuzione di forme particolari, oltre lo sviluppo nelle tecniche di taglio. Come l’insalata di filetto di manzo con dressing agropiccante: piatto bandiere per le nostre melting pot salad.
Spostandoci invece radicalmente dall’aria metropolitana, che per definizione non dovrebbe essere così ostativa al cambiamento e alla contaminazione tra culture, arriviamo in Abruzzo. Terra di pastori, tradizioni fortemente radicate nel territorio, e secolari abitudini dure a morire soprattutto in tavola. Ecco invece spuntare il lavoro incredibile di Bottega Culinaria, che grazie alla mano di Cinzia Mancini fa scoprire un Abruzzo innovativo, che parte dalle origini ma si rimpasta con il futuro. Un lavoro da vero orefice che non conosce confini geografici, molto attento alla materia prima soprattutto vegetale. Come le erbe, semi e green fermented milk, oppure il foie gras di melanzana o il topinambur, funghi, mole. Una rivoluzione per lo più verde, che parla diverse lingue nel piatto.
Nella foto in alto: una proposta salad di Bon Wei, foto di Andrea Mariani
Articolo pubblicato su WU 108 (giugno luglio 2021). Segui Martina su IG
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