VISIVA #10 – MAYUKA YAMAMOTO E LA METAMORFOSI INDOSSATA
Mayuka Yamamoto ha focalizzato il suo percorso artistico sulla metamorfosi animale, coinvolgendo la sfera infantile anche a livello personale
di Emma Cacciatori
‘Visiva’ è una rubrica che si occupa di arte. Più che fornire il rendiconto di quanto si sa che c’è, cerca di far vedere quanto sta per esserci, lasciando immaginare quanto sta per cambiarci.
Mayuka Yamamoto è una pittrice giapponese che, dopo essersi laureata a Tokyo e avere perfezionato i suoi studi a Londra, è tornata in Giappone, dove attualmente vive. I protagonisti più frequenti delle sue opere sono bambini perennemente insediati dall’animalità. I loro corpi in metamorfosi stanno nel mezzo di un gioco che inquieta e intriga tra fumetto e arte, ingenuità infantile e colto citazionismo, affettività e disincanto. I suoi lavori sono stati esposti in numerose mostre individuali e collettive, in Giappone e all’estero, e sono battute all’asta per decine di migliaia di dollari.
Partiamo dall’inizio, dal “vero” inizio. C’era un tempo, molto lontano, di centauri e sirene, nel quale gli dei prendevano le sembianze di animali per potere amare le donne degli umani, che spesso venivano puniti e trasformati in serpi o porci o piante. E la luna piena tramutava i pastori in lupi mannari. In quel tempo il confine tra umano e animale era così sottile che gli uomini temevano di infrangerlo inavvertitamente. E la paura di commettere la colpa di non capire durò per secoli e ancora un centinaio di anni fa esistevano impiegati di banca trasformati in scarafaggi che languivano in tristi stanze in affitto.
Poi arrivarono le macchine e divennero così numerose ed essenziali, che gli uomini, ormai lontani dall’aspettarsi pericolose contaminazioni dalla natura, incominciarono a temere e a desiderare il connubio con l’inorganico tecnologico e i suoi poteri. E mentre i media andavano raccontando queste vicende, il mondo diventava a sua volta un enorme organismo fluido ed instabile, dove tutto sembrava potersi modificare ad ogni momento e le storie rischiavano di essere sempre le stesse. Per evitare la noia del déjà vu, ci si mise a raccontare quello che già era stato raccontato, ma rimescolando tutti gli ingredienti. Così le storie di trasformazione vennero a loro volta trasformate, moltiplicandone le potenzialità narrative e le loro sfumature.
È in questa ottica di “meta-metamorfosi” che proponiamo la lettura delle opere di Mayuka Yamamoto e dei suoi bambini mutanti. A prima vista, molti di loro sembrano assomigliare ai nostri cuginetti mascherati per il veglione di Carnevale, con il corpo ingolfato in una buffa tuta acrilica, e il viso che sbuca di sotto il becco di un pinguino o il muso di un orso polare come in Penguin Boy. Tuttavia, in questi dipinti, c’è qualcosa di inquietante che resta nello spettatore e lo lascia perplesso, come se, a festa finita, la tuta non si potesse più togliere.
Se da una parte, infatti, ci sembra di trovarci di fronte a camuffamenti giocosi di bambini più che a vere e proprie metamorfosi, dall’altra queste facce inespressive, questi sguardi persi, questi inconsapevoli corpi ancora in divenire imprigionati nel loro travestimento suscitano lo stesso coinvolgimento emotivo che si prova davanti a piccoli ammalati. Ciò accade soprattutto quando le strisce di una zebra invadono i loro volti come fossero sangue che sgocciola (Zebra), le orecchie di lupi o le corna di cervo si impiantano nei loro crani o le propaggini di mostri si impossessano delle loro braccia. Tuttavia, anche in questo caso, le regole del gioco della Yamamoto non prevedono commozione, bensì un esercizio di equilibrio sul filo dell’ambiguità.
Pare che la presenza pervasiva e ambigua dell’animalità abbia preso definitivamente forma nei quadri di Mayuka Yamamoto dopo la sua gravidanza, nel 2002. «Potevo concentrarmi solo su mio figlio, e quando ci penso ora la cosa mi sembra così strana. Mi sentivo istinttivamente coinvolta in questo processo di “creazione del nido”», ha detto in un’intervista. Una scoperta, una paura, quella della nostra componente “bestiale”, proiettata e oggettivata sul corpo del figlio, come sembra confermare la calcografia di una mamma (lei?) (Mama) ridotta a una vuota silhouette disegnata su un foglio piegato in quattro.
Ma le bestie a cui fa riferimento Mayuka Yamamoto non le troviamo in natura. Il suo bestiario occupa le pagine dei libri d’arte, quelli dei pittori giapponesi e di chi li ha studiati e imitati. Come Van Gogh, a cui la nostra artista rende un esplicito omaggio, fasciando uno dei volti del suo modello bambino con la stessa benda con la quale il pittore si era ritratto, dopo essersi tagliato un orecchio. E il suo gesto non aveva nulla di bestiale.
In alto: ‘White Boat’ (2018) di Mayuka Yamamoto, courtesy Dorothy Circus Gallery
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