FUNCLAB – VERSO L’IPERSPAZIO
Si chiama 5 to Hyperspace il progetto del collettivo milanese per festeggiare i suoi primi cinque anni di attività. La loro è una storia breve ma intensissima, di cui sicuramente molti capitoli sono ancora da scrivere
di Enrico S. Benincasa
Compie cinque anni Funclab, il collettivo milanese di base a NoLo composto da Lorenzo Abbate, Giacomo Guglielmo Gorla, Tommaso Bullo, Ludovico Waston e Prev. Molti li conoscono per la loro attività negli eventi, altri per le installazioni come Cathodic Jungle, altri ancora per l’etichetta discografica Funclab Records. Hanno radici sono ben piantate a Milano, ma un approccio internazionale a cominciare dal modo di comunicare («molti pensano che siamo stranieri e ci scrivono in inglese», ci hanno detto), cosa che ha permesso loro di collaborare con partner come Nike e Adidas. Multidisciplinari e originali, con 5 to Hyperspace, un progetto non solo musicale, celebrano il primo compleanno importante.
5 to Hyperspace è il progetto che comprende una compilation e una T-shirt realizzata da Yuri Kaban e che celebra i primi cinque anni di Funclab. Quando è nata l’idea?
È un anno che siamo in ballo, se consideriamo anche il tempo speso a contattare gli artisti. Ci sono voluti sei mesi di ricerca e altrettanti per la raccolta del materiale e la produzione del disco, che ora è molto più lenta per la penuria del materiale necessario, cioè il vinile.
Festeggiate cinque anni che, dando un occhio a tutto quello che avete fatto, saranno sicuramente sembrati più lunghi.
Sì, senz’altro. Funclab, è un gruppo che fa tante cose. Nei nostri primi cinque anni abbiamo fatto tanto, ma non abbiamo mai comunicato nel dettaglio all’esterno quello che facevamo. Diciamo che, se guardi le nostre pagine, non è sempre chiaro chi siamo e quello che siamo e questa uscita può aiutare a inquadrarci meglio.
È stato difficile limitare le tracce a otto?
Venivamo da una compilation non stampata, Enough is Enough, che aveva oltre 50 tracce e non è stato semplice. Abbiamo contattato tutti quelli che volevamo, poi per una serie di incastri abbiamo scelto gli artisti per queste otto tracce e siamo contenti del risultato finale. A nostro parere esce una bella fotografia di quello che siamo oggi musicalmente parlando, mettendo in luce da dove veniamo e dove stiamo andando.
Come avete creato Funclab Collective?
Siamo nati come collettivo artistico nel 2016, ma non c’è una data precisa. Nel tempo, poi, ci siamo strutturati e sono arrivati i nostri primi lavori su commissione. Abbiamo sempre tenuto a essere più real possibili, rimanendo fedeli al nostro linguaggio e al nostro modo di comunicare. Ci evolviamo come tutti e lo stiamo facendo, per esempio, con i nostri dischi, la linea si sta sviluppando e sta cambiando. Siamo diversi da come eravamo due anni fa e da come saremo fra due anni.
Rimanere real vi ha fatto dire anche di no?
Sì e pensiamo che ci abbia fatto bene farlo. Ma abbiamo detto anche dei sì perché ci consideriamo una realtà inclusiva, è facile avvicinarsi a noi se c’è sintonia a livello di visione comune. Per esempio, l’ultimo disco che abbiamo prodotto, quello di Holly Spleef, lo abbiamo fatto in pochissimo tempo. Dal primo contatto che abbiamo avuto con lui ci siamo capiti subito. In realtà sarebbe dovuto uscire dopo, ma visto il mood quasi estivo abbiamo fatto di tutto per farlo uscire il prima possibile ed è andato sold out in due settimane.
Nella vostra storia ha inciso la pandemia. Vi siete dovuti un po’ reinventare?
Sì, forse più che reinventarci la pandemia ci ha dato modo e tempo di dedicarci a cose che prima non avevamo materialmente il tempo di fare, come per esempio questo progetto. Quando ci siamo fermati eravamo veramente carichi, stavamo la- vorando tanto con serate ed eventi. Ora ci sembra che, a livello di mood, ci siano i presupposti per un graduale ritorno verso la normalità.
Ora che avete ricominciato con l’attività live, c’è qualcosa di diverso per voi?
Ci siamo resi conto di avere una fanbase molto leale. Da quando è iniziata la pandemia, ci siamo volutamente stoppati, non volevamo fare nulla fino a quando le cose non fossero tornate a una sorta di normalità. Abbiamo ricominciato a settembre e la risposta è stata incredibile. Abbiamo fatto quasi un evento a settimana senza accorgerci. Secondo noi c’è un cambiamento in meglio, il pubblico si sta abbassando di età, ma si sta educando.
Cathodic Jungle è la vostra installazione più famosa. Qual è la storia di questo lavoro?
È nata per il Salone del Mobile del 2016 per allestire un palco, poi hanno iniziato a chiedercela dappertutto e ha fatto più di 100 date. L’ultima è stata fatta per Marco Mengoni, che aveva radunato alla Torre Velasca di Milano diverse installazioni che gli piacevano per descrivere il suo album. Adesso è stata venduta a Sampling Moods e ci è capitato spesso di rivederla perché in questa location abbiamo anche organizzato degli eventi.
Che effetto vi fa quando la rivedete?
È strano rivederla, perché abbiamo veramente sputato sangue per montarla, rimontarla e ripararla. Nei primi anni l’abbiamo portata in giro ogni settimana, abbiamo svuotato le cantine di chiunque per cercare nuovi televisori, tanto che a un certo punto eravamo diventati “quelle delle televisioni”. Siamo comunque soddisfatti che non sia andata persa e che vive, perché da Sampling Moods la accendono sempre. Speriamo di farne altre, è un mondo che ci piace e che ha molto potenziale, ma non è semplice starci dietro.
Nella foto in alto: i Funclab
Funclab su IG
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