COSTRETTI A SANGUINARE
L’affaire Nori-Dostoevskij ha messo in luce come, nel mondo culturale italiano, ci siano ancora problemi a gestire situazioni dove entra in gioco un concetto come il politically correct. Come se ne esce? Lasciandosi guidare dall’alfabeto
di Matilde Quarti
L’invasione dell’Ucraina era qualcosa che analisti politici e, soprattutto, servizi segreti, aspettavano con il cronometro in mano. Meno, ovviamente, i comuni cittadini, che la sera prima dell’invasione russa ballavano nei club, passeggiavano nelle piazze, compravano mobili in centri commerciali che, a un mese di distanza, non esistono più. Come le piazze, come i club.
Nel secolo della catastrofe climatica e della colonizzazione dello spazio, mentre uno Stato sovrano ne invadeva un altro, abbiamo seguito sui social, momento per momento, l’attacco alle città e la costruzione di bombe molotov. In quella che sui media di partito russi è chiamata “operazione” e che noi possiamo serenamente chiamare “guerra”, si innestano piccole tragedie nostrane e momenti di agitazione da salotto televisivo. Tra questi alcuni li derubrichiamo a superflui, altri sono invece spia di una tendenza alla riduzione della complessità che, invece, andrebbe presa più seriamente. In particolare un evento all’apparenza minuto è riuscito a sfondare i confini della bolla culturale, abitualmente impermeabile al mondo esterno: un affare di scrittori che ha fatto impennare le vendite di un autore ottocentesco.
La questione riguarda uno autore italiano, Paolo Nori, che parla di russi e che, in particolare, in questo periodo parla di Dostoevskij, sul quale ha pubblicato un libro che si intitola Sanguina ancora incentrato sulla sua vita e su quello che lo ha personalmente fatto (come da titolo) sanguinare. Ed è un breve corso su Dostoevskij che Nori si è visto cancellare dall’Università Bicocca di Milano, per “evitare polemiche”, come ha riportato in un video piuttosto commosso su Instagram. La notizia è stata ripostata, ha sfondato con una velocità ragguardevole i confini della bolla culturale, è finita sui giornali e per fortuna tutti hanno, con la stessa serenità con cui si dà alla guerra il nome di “guerra” e non di “operazione”, dato alla scelta della Bicocca il nome che effettivamente ha: idiozia.
Dostoevskij, tra l’altro, ha un dettaglio autobiografico notevole, che vale la pena di approfondire: una condanna per dissidenza politica. Dostoevskij, nel 1849, è un giovane autore promettente, che frequenta il circolo di Petrasevskij, un gruppo di ispirazione socialista che affronta temi di politica e attualità e in cui, una sera, si azzarda a leggere un documento censurato dal governo, una dura lettera del filosofo Belinskij a Gogol’ sull’autocrazia russa. Dostoevskij, reo di una colpa che ai nostri occhi può ben apparire ridicola, viene arrestato, processato e condannato. La scena, che possiamo immaginare si sia svolta nel cortile della prigione il giorno dell’esecuzione della condanna, è questa: un gruppo di dissidenti viene bendato e messo al muro, i fucili della polizia zarista sono puntati; in piedi, a poca distanza, il gruppo che dovrà essere fucilato subito dopo, di cui fa parte Dostoevskij. Ma nessun fucile sparerà, lo zar si è divertito sulla loro pelle e lo scrittore, traumatizzato ma vivo, verrà mandato in prigionia in Siberia e poi ai lavori forzati.
Ma al di là della storia personale di Dostoevskij, l’episodio di censura capitato a Nori (una censura zoppa, poi ritrattata goffamente, come se un’università fosse un influencer alla ricerca di approvazione), resta rilevante. In un momento storico in cui in Italia i lettori tendono a diminuire e in cui il chiacchiericcio su qualsiasi questione è costante, sembra che, questa complessità tanto tartassata, si sia per una volta riuscita a salvare. Ci sono esperienze letterarie e più genericamente culturali (pensiamo al cinema, pensiamo al teatro, pensiamo alla musica) che sono bastone e carota, che fanno sanguinare e per questo raccontano chi siamo. E la letteratura russa, anzi russofona – perché siamo bravissimi, sugli scaffali delle librerie, a vedere un cognome che finisce in -ov o in -ic e fare di tutto il cirillico un fascio – è piena di eroi e soprattutto antieroi, impelagati nelle maglie del sistema, che si affannano, nel loro quadrato di terra, contro le storture del mondo.
Dopo due anni passati a pensare ossessivamente a una pandemia, un concetto che eravamo abituati ad associare a film distopici, non certo alla quotidianità, a destreggiarci tra tassi di positività e regole sanitarie che cambiavano settimanalmente, abbiamo scoperto che la guerra può arrivare in Europa, in tutta la sua brutalità novecentesca. Abbiamo spostato l’attenzione da una catastrofe a un’altra, ma il tono del discorso, forse solo più stanco, è rimasto lo stesso. E se questa storia di Dostoevskij, condannato nell’Ottocento e reputato non troppo sicuro per un corso universitario nel 2022, può insegnarci qualcosa, è la possibilità di lasciarci guidare dall’alfabeto, che non ha colpe neanche quando viene dipinto sul retro di un tank, e dalle storie, che sempre ci difendono contro gli zar di ogni epoca.
Articolo pubblicato su WU 113 (aprile – maggio 2022)
Nella foto in alto: la statua di Dostoevskij a San Pietroburgo, foto di Szenenka da Flickr
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