LUCA FERRI – CHI È IL DIVINO OTELMA?
Il regista bergamasco ha presentato al Torino Film Festival ‘Vita Terrena di Amleto Marco Belelli’, il suo lavoro sul Divino Otelma. Ecco cosa ci hanno raccontato lui e il protagonista del film
di Davide Colli
Durante la 40esima edizione del Torino Film Festival abbiamo incontrato Luca Ferri, regista del documentario Vita Terrena di Amleto Marco Belelli. Un nome che ai più potrebbe dire poco, ma è il vero nome di un personaggio del nostro showbiz che i più probabilmente conoscono: il Divino Otelma. Questo è un doc particolare, quasi un “non documentario”, girato durante la pandemia con tanti contributi da remoto dello stesso Otelma e di persone che gli sono state vicino durante la sua carriera. Alla chiacchierata ha partecipato anche il protagonista del film: ecco cosa ci hanno raccontato.
Il tuo film è un ibrido tra documentario e film di narrazione, come una gran parte della tua filmografia. Quanto di Vita Terrena di Amleto Marco Belelli è rappresentativo di essa?
Luca Ferri: C’è il tema fondante del lavoro su un linguaggio personale, che sto provando a fare da tanto tempo. Da anni stiamo lavorando a come imbastire la storia, perché è un film sul Divino Otelma, ma anche sul cinema, con una specifica struttura esibita in modo chiaro. Non mi viene infatti da considerarlo un documentario, ma un film. Il fatto che sfugga da catalogazioni e confezioni è già un grande traguardo, così come il Divino Otelma è una figura che sfugge dalle etichette ed è il motivo per cui mi sono avvicinato a lui. Un personaggio quasi come Carmelo Bene, la cui vita è devoluta all’arte.
Il film si presenta come un diario, un collage con inserti video e audio provenienti da diversi media. Quanto la situazione pandemica in cui avete svolto le riprese ha influenzato questa struttura?
LF: Non sono una persona che ama il cinema libero. Credo fermamente che la costrizione e un’intelaiatura siano fondamentali. Senza pandemia ci sarebbe stata un’idea di struttura completamente diversa, ma comunque sempre una struttura ben precisa. Il gestire il tutto a distanza è stato sicuramente un grosso paletto che ha influenzato notevolmente la produzione, ma non sono sicuramente un regista che riprende senza avere in testa il film ben definito se non in sala di montaggio. Il lavoro di montaggio è incredibile, è una vera e propria costruzione del film. Non c’è un accumulo, bensì ogni frammento ha una data ben precisa riportata e un titolo, anche per liberarsi di una libertà troppo dispersiva. È quasi un principio di autismo, ossessivo.
Divino Otelma, le è stato mai chiesto di partecipare a un progetto del genere o comunque di prendere parte a ruoli cinematografici o teatrali?
Divino Otelma:È accaduto che qualche regista mi avesse chiesto di recitare. Mi è stato proposto il ruolo del Mercante di Venezia, ma che non è andato in porto per colpa di mancanza di fondi. Mai nulla che si avvicinasse a questo genere di esperienza. Certamente questo incontro è stato favorito dalla pandemia, che ha contribuito alla genesi del progetto. L’intuizione di utilizzare Skype viene proprio dal periodo storico. Questa pellicola non può essere definita in modo certo, si tratta di una novità. Non c’è niente che assomigli a questa opera filmica, alla quale pensiamo possano seguire tentativi di imitazione. Possiamo dire che è un esperimento innovativo, senza copione, quasi un ritorno al teatro dell’arte. Gli attori sulla base della loro esperienza creavano il film e vi è, in un certo senso, questa linea di continuità. A nostro avviso, non si può definire nemmeno un film biografico, perché non è un’analisi sulla vita di una persona, non segue quei tempi canonici. È irriverente come omaggio formale.
Partendo dall’assunto che anche il cinema più documentaristico contenga l’artificio, proprio perché il regista vuole portare il pubblico a credere a ciò che appare sul grande schermo, quanto è assimilabile il cinema a una religione?
DO: Dipende. Bisogna definire il termine religione e differenziare la religione dal culto. Sono tutte scatole una dentro l’altra. Definiamo la religione come rapporto tra uomo e il divino. Se la intendiamo in questo modo, dipende dall’impostazione del film. Se il film, nelle sue movenze, lascia intravedere un personaggio o più personaggi che stabiliscono o provano a stabilire un rapporto col Divino, allora lo si può considerare uno strumento per avvicinarsi al divino. Ci sono film, invece, che non affrontano la religione, neanche in minima parte. Magari chi ha creato il film non li ritiene necessario e si concentra su problemi di immediata concretezza. Il nostro film, invece, a mio avviso non trascura, se esaminato nella sua completezza, il tema del divino. Il tema agisce nella mente dello spettatore a seconda dell’esperienza di quest’ultimo.
LF: Nei miei film, per esempio, provo a ragionare sulla natura del mezzo cinematografico. Che scelga di utilizzare Skype, il 16 o l’8 millimetri cambia poco, è solo grammatica. È quasi un dispositivo che autosabota se stesso, in quanto il cinema stesso tratta spesso e volentieri di cosa sia vero e cosa sia falso. Il discorso del cinema è il discorso del pulpito: lo schermo è posizionato sopraelevato, in alto solitamente ci sono i predicatori e il divino, mentre il pubblico guarda dal basso verso l’alto. C’è indubbiamente un rapporto di forza nel cinema, tra immagine e spettatore.
La foto in alto di Luca Ferri è di Andrea Mirko Colombo
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