LUCA FONT – IN CIRCOLO
Dal tatuaggio alle opere di arte pubblica, passando per l’illustrazione e la grafica, nel corso degli anni ha affinato la sua ricerca artistica e il suo stile. Ogni suo lavoro è riconoscibile, a prescindere dalla grandezza e dal supporto che lo ospita
di Enrico S. Benincasa
Molti lo conoscono per i tatuaggi, altri per le opere di grandi dimensioni, altri ancora per le illustrazioni. Di sicuro i lavori di Luca Font sono riconoscibili, al di là della grandezza e della tecnica utilizzata, frutto di una ricerca artistica che negli anni si è alimentata in maniera circolare, prendendo input da un ambito e sviluppandoli in altri. La versatilità è un suo tratto caratteristico ma anche un bisogno, che gli fornisce nuovi stimoli creativi a cui Luca non intende rinunciare. Cominciamo la nostra intervista da uno dei suoi ultimi lavori su grandi superfici, La città della moda, che ha dato un nuovo volto al tratto pedonale di Parco Ravizza a Milano.
La città della moda è uno dei tuoi ultimi lavori, che segue quello realizzato qualche mese prima in piazza del Volontariato a Padova, Trame di tessuto urbano, progetti promossi dal gruppo McArthurGlen insieme alle rispettive municipalità. Entrambi sono interventi di arte pubblica su superfici orizzontali. Sta cambiando qualcosa nella percezione generale di queste opere nei contesti urbani?
Oggi il discorso sugli interventi di arte pubblica su superfici orizzontali e verticali, anche in Italia, è affrontato con una consapevolezza diversa. È sicuramente un bene che ci si renda conto che, anche grazie al mecenatismo privato come in questi due casi, si tratta di interventi non solo puramente decorativi. Opere come queste sono in grado di restituire una valenza agli spazi e spesso funzionano da invito all’uso. A Padova, per esempio, abbiamo lavorato in un quartiere abbastanza periferico, in un’area che giaceva in stato di abbandono da quasi quarant’anni, e abbiamo ricevuto feedback molto positivi soprattutto da persone di una certa età, quelle da cui potresti, in linea teorica, aspettarti una critica.
È una cosa comune il confronto con le persone quando si dipinge in spazi pubblici? C’è comunque uno studio a monte del luogo?
Sì, soprattutto quando si cerca di dare una valenza al contesto in cui si sta operando, quando si prova a creare qualcosa in cui le persone che ci vivono possano identificarsi. Questo avviene grazie ai sopralluoghi, ma serve sempre sensibilità, studio e ricerca. Anche un intervento puramente decorativo è per me un fattore positivo ma, se posso, cerco sempre di dare un valore aggiunto. Adesso andrò a riqualificare un campo da basket a Trieste e ho cercato di lavorare sull’identità del quartiere. L’obiettivo è far sì che chi “vivrà” l’opera non la percepisca come un intervento calato dall’alto, ma come una cosa che gli possa appartenere.
Ti capita di ricevere feedback di questi tentativi di dare un valore aggiunto?
Ho lavorato spesso in giro per l’Italia, raramente a Milano dove sarebbe più facile per me avere dei riscontri. Comunque sì, cerco di avere un feedback di queste opere pubbliche. A Padova, per esempio, durante la festa di inaugurazione, c’era un signore sull’ottantina che sedeva in un angolo e tutti andavano a parlarci. Per curiosità mi sono avvicinato e ho sentito una persona che gli diceva: «Finalmente è successo quello che cercavi di fare da trent’anni». Quel signore era un ex assessore che si era battuto per la riqualificazione di quell’area. Il problema di vivere gli spazi non è di oggi, insomma, e quella persona ha aperto una discussione che si è concretizzata solo anni dopo. Incontri come questi, comunque, sono quelli che ti danno la conferma che l’approccio è quello giusto.
Merito di questo interesse per le superfici orizzontali viene dai playground.
È stata la scintilla da cui è partito tutto negli Stati Uniti e, per tanti anni, l’unica applicazione, oggi ci siamo spinti oltre. Sicuramente il rapporto tra basket, street culture e writing ha avuto un peso, ma la storia stessa ci insegna che le subculture sono il bacino da cui va ad attingere il mainstream quando ha bisogno di contenuti. Prima si criticava questo genere di interventi, oggi invece gli artisti vengono celebrati ma provano a fare le stesse cose che proponevano anni fa.
Il tuo incontro con il mondo del tatuaggio risale al 2008. Quanto è stato importante il tattoo nel tuo percorso artistico?
Lo è stato sicuramente perché mi ha permesso di sostenermi, di vivere disegnando, cosa che ai tempi era molto difficile facendo solo arte murale. Concentrarmi solamente sul disegno mi ha permesso di sviluppare idee da portare su media differenti. È stato in un incentivo a continuare la mia ricerca e ha esposto il mio lavoro in molti ambienti, cosa che nel corso del tempo mi ha dato diverse possibilità e occasioni.
Si è quindi attivato una sorta di effetto circolare che ha pervaso ogni ambito in cui operi.
Ho esplorato e affinato il mio stile e il mio linguaggio artistico e, nel tempo, ho capito che potevo applicarlo agli ambiti da cui sono partito, alla grafica, all’illustrazione e al muralismo. E questo mi permette di sviluppare oggi nuove idee che posso applicare anche ai tatuaggi. È stato ed è tuttora un circolo virtuoso.
I tuoi “mondi” hanno sempre comunicato l’uno con l’altro e nessuno ha fagocitato l’altro.
Focalizzarsi in un solo ambito può succedere a un’artista. È una cosa che non mi va di fare, preferisco lavorare applicando lo stesso linguaggio a media e superfici differenti. Per me è importante perché mi stimola l’interesse e la ricerca.
Ora che siamo tornati a pieno regime, tra tatuaggi, muri, illustrazioni e grafica, riesci a organizzare la tua schedule senza difficoltà?
Non ho mai avuto particolari problemi sotto questo punto di vista, anche se a volte devi letteralmente saltare da un posto all’altro. Non avere una routine fissa da studio, nel mio caso, serve per tenere viva l’attenzione e non lavorare con il pilota automatico, cosa che non fa per me.
Che progetti nel prossimo futuro?
Non si sa mai cosa salta fuori, certamente dopo il lavoro di Milano e questo di Trieste riprenderò con l’arte pubblica in primavera. L’inverno sarà fatto di illustrazioni, tatuaggi e interni, ma per me si tratta sempre di portare avanti il mio discorso sull’arte visiva.
Luca Font su IG
Nella foto in alto: Luca Font
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