ITALIANS DO IT BETTER?
Quali sono le serie tv non italiane (e non americane) che vale la pena vedere? Ecco tre proposte per chi è in vena di esotismi. E di storie ben scritte
di Matteo Torterolo
Italians do it better, diceva quella. Sarà. Resta il fatto che la mania per l’esotico affligge un po’ tutti da queste parti, e quando si parla di serie tv – ahimé – bisogna ammettere che in parecchi posti le cose vengono fatte meglio. Parecchio meglio.
Così, mentre da noi resta tuttora insuperato, e drammaticamente isolato, il caso Gomorra (coi suoi pregi e difetti, per molti, e anche per chi scrive, la migliore serie italiana di sempre), altrove sono fiorite e fioriscono vere e proprie scuole, da quella nordeuropea a quella coreana a quella messicana. Abbiamo scelto tre piccoli esempi, che valgono sicuramente un’occhiata: per chi ama l’esotico, o anche semplicemente le storie ben raccontate.
Makanai (Giappone)
La trama della nuova serie rivelazione di Netflix, opera di quel Hirokazu Kore’eda famoso in tutto il mondo per il film Un affare di famiglia (Palma d’Oro a Cannes nel 2018 e finalista agli Oscar come miglior film straniero), ruota attorno a due inseparabili amiche, Kyo e Sumire, che scelgono di diventare geishe. Mentre Sumire sembra avere le giuste, Kyo non riesce a mettersi in mostra e rischia di essere mandata via dalla okiya (letteralmente “case delle geishe”, come sono chiamate a Kyōto le residenze nelle quali vengono addestrate e ospitate le giovani maiko), ma scoprirà di avere una qualità unica, che le permetterà di rimanere: una cucina genuina e tradizionale, eppure incredibilmente raffinata, che conquista tutte e tutti a cominciare dalle sue compagne. Tra dialoghi sussurrati e profumi millenari, un racconto di una delicatezza unica, in tonalità pastello, con quel tocco di affascinante nostalgia che solo i giapponesi sanno puntualmente trovare.
Trapped (Islanda)
Due stagioni e uno spin-off (il trascurabile Entrapped) per questa serie islandese ambientata nella remota enclave di Siglufjörður, estremo nord del paese, dove i segreti ben celati e i proverbiali malumori di un paesino di provincia si intrecciano con oscure trame internazionali tra omicidi, crimini ambientali e traffico di esseri umani. Al centro della serie, la più costosa mai realizzata in Islanda, (oltre sei milioni e mezzo di euro, mentre le produzioni più onerose islandesi si aggirano solitamente sul milione) il mastodontico Andri, interpretato da Ólafur Darri Ólafsson, ex segugio della polizia speciale di Reykjavík in esilio volontario, che cerca di dipanare misteri apparentemente inspiegabili con l’aiuto di tutto il personale della locale stazione di polizia (due agenti). Un eroe improbabile, ma – guardare per credere – dannatamente convincente. Grazie a questa serie ho scoperto, tra l’altro, che la popolazione complessiva dell’Islanda non supera le 400 mila unità, poco più degli abitanti di Firenze. Non si smette mai di imparare.
Fauda (Israele)
Una delle serie più avvincenti (e irritanti) che mi sia capitato di vedere ultimamente. Tratto dalla storia vera di un ex agente dei servizi israeliani, Fauda racconta le vicende di un gruppo di agenti del Mista’arvim, unità dell’esercito israeliano specializzato in operazioni sotto copertura nei territori occupati palestinesi composta da soldati scelti in grado di spacciarsi perfettamente per il nemico: parlano l’arabo del luogo e della Palestina conoscono a menadito storia e cultura. Tutto molto avvincente, ma anche molto realistico, al punto da diventare quasi un involontario manifesto contro l’occupazione israeliana dei territori: dotate di tecnologie all’avanguardia, iper-equipaggiate di armi e dotate di una licenza indiscriminata di uccidere, le forse israeliane si esibiscono in un gioco del gatto con il topo che, fatte salvi gli intoppi occasionali, definire sproporzionato sarebbe puro eufemismo. Anche qui il protagonista (Doron) è un antieroe parecchio distante dai canoni classici – e dal suo peso forma – eppure inspiegabilmente perfetto per il suo ruolo: pelato, sudaticcio, lo sguardo da pesce lesso, ha la faccia tra l’infastidito e l’inespressivo di quello che vorrebbe sempre trovarsi altrove. Salvo rivelarsi, immancabilmente, l’uomo giusto al momento giusto.
Nella foto in alto: un momento della prima puntata di ‘Makanai’, courtesy Netflix
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