BIENNALE 82 – THE SMASHING MACHINE
Benny Safdie (Diamanti Grezzi) torna alla regia, stavolta in solitaria, portando sul grande schermo la storia vera del lottatore di arti marziali miste Mark Kerr, a cui presta il volto Dwayne Johnson
di Davide Colli
The Smashing Machine, senza alcun dubbio, era tra le opere più attese del listino veneziano per due motivi. Benny Safdie, dopo diverse incursioni nel mondo della recitazione (Oppenheimer, Licorice Pizza) e nel piccolo schermo televisivo (The Curse, affiancato da Nathan Fielder), si rimette dietro la macchina da presa di un progetto cinematografico, ma senza il fratello Josh, impegnato col suo Marty Supreme.
Accanto al ritorno di uno degli autori arthouse più influenti dell’ultimo decennio, The Smashing Machine vive (e soprattutto) grazie al suo protagonista, Dwayne “The Rock” Johnson, nel suo primo vero ambizioso ruolo. L’errore più grande sarebbe scambiare il film per un mero veicolo per far raggiungere la statuetta dorata all’ex wrestler. Difatti l’approccio di Safdie è opposto all’ansiolitico iperdinamismo di Good Time o Diamanti Grezzi, preferendo uno sguardo (inevitabilmente figlio del cinema di John Cassavetes) sobrio e scarno, che evita i sensazionalismi dalla lacrima facile tipici di questo sottogenere sportivo, ma senza risultare distaccato. L
’intera operazione dietro il film è all’insegna della riduzione all’osso, all’essenza dell’azione cinematografica, ovvero un soggetto, un corpo. L’entità in questione è un irriconoscibile The Rock che, come da regolamento Academy, si ricopre di trucco prostatico, non scompare. La sua performance diventa strabiliante proprio per la scelta di adottare una recitazione per lo più sommessa e spontanea senza rinunciare al bagaglio iconico che emana la figura di Dwayne Johnson. Nessuna straziante scena madre ed esplosioni melodrammatiche col contagocce. Eppure Benny Safdie non si limita a redigere l’impalcatura per una grande prova attoriale, ma ci costruisce attorno un discorso sullo statuto dell’icona come prigione dell’uomo dietro di essa, che trova il suo parallelo autobiografico nella carriera di Dwayne Johnson.
Nel regalare al pubblico un buio squarcio della vita di un lottatore che si è aperto alla semplicità di una vita lontano dal ring, Dwayne Johnson rinuncia a quell’amalgama di simboli e gestualità coi quali ha intrapreso la sua carriera e che fanno parte indissolubilmente la sua figura pubblica. La rinuncia alla propria immagine prestabilita dal mondo esterno in favore dell’emersione del proprio vero io prende sostanza nel metacinematografico e toccante finale, rendendo The Smashing Machine, pur nella sua forma evidentemente derivativa, meritevole di attenzione.
Nella foto in alto: Dwayne Johnson ed Emily Blunt in ‘The Smashing Machine’, photo courtesy A24
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