AMALFITANO – BELLA È LA FINE
Il cantautore romano ha pubblicato un disco dal titolo insolito, che mette in luce la sua capacità di essere musicalmente versatile ma riconoscibile
di Enrico S. Benincasa
Un titolo che incuriosisce, un album che parla di fine esplorando l’accezione ottimista che può avere questa parola, con pezzi uniti da un’altro termine “pesante”, l’amore, ma spogliato di quella componente eccessivamente melensa che ci si può aspettare quando si affronta l’argomento. Amalfitano, con il suo Sono morto x 15 giorni ma sono tornato perché l’amore è, ci dimostra come si possa trovare una propria strada nel cantautorato di oggi, esplorando diversi territori musicali senza cambiarsi d’abito. A breve sarà impegnato anche sul palco, con il primo live il prossimo 18 dicembre a Roma, al Monk, a cui seguiranno altre date già programmate durante il mese di gennaio.
Il titolo dell’album, Sono morto x 15 giorni ma sono tornato perché l’amore è, merita di spendere qualche parola. Da dove nasce e cosa rappresentano quei 15 giorni?
Il titolo allude a una scritta che tanti anni fa ho visto incisa su un muro. Mi fece ridere, ma anche riflettere, e per molto tempo è rimasta nella mia testa. La durata temporale dei 15 giorni rappresenta un po’ il tempo in cui si sta male, il tempo per elaborare il dolore e rinascere più forte. Tra l’altro, essendo la scritta incisa, non si capiva bene se la “e” finale fosse accentata o fosse la congiunzione a un’altra frase, perché si interrompeva. Ho scelto io di metterci l’accento.
Quando hai iniziato a lavorare a questo disco? Quali sono le canzoni con cui hai cominciato e quali quelle che hai chiuso verso la fine delle lavorazioni?
Ho iniziato un anno fa. È stato in un certo senso rapido, perché avevo una grande voglia di scrivere e di pubblicare un altro album. Avevo già delle canzoni che non erano rientrate nell’album precedente, come Tienimi la mano, Diva!. Ricordo che la prima canzone che ho scritto per il nuovo disco è Mille volte sì, che ho scelto per aprire la tracklist e che è un po’ il leitmotiv al progetto, perché è totalmente ottimista. È puro ottimismo, mi ero innamorato e volevo che Sono morto x 15 giorni ma sono tornato perché l’amore è partisse così.
Hai detto che questo disco «parla di fine, ma in modo positivo». In che modo per te la fine diventa un atto di rinascita o di liberazione?
Ultimamente la parola “fine” ha un’accezione principalmente negativa, perché con i tempi che viviamo la pensiamo come la conclusione di qualcosa di bello: di un amore, dei bei tempi, della fine dell’estate, del divertimento, della gioventù. In realtà, può essere anche la fine del dolore e così viene meno quell’accezione negativa, viene vista come un momento di trasformazione, come un passaggio che ci porta da una cosa a un’altra.
L’amore attraversa l’intero album come una forza ambivalente, capace di distruggere e rigenerare, ma in queste canzoni sembra prevalere la parte più ottimista. È più coraggioso oggi essere ottimisti quando si parla d’amore?
Parlare d’amore è sempre ottimista. Magari si può essere più profondi, ma la profondità non è contraria all’ottimismo, perché quest’ultimo non è superficialità, bensì la parte speranzosa del parlare d’amore.
In L’Iliade parli di solitudine e destino intrecciando mito e quotidianità. C’è un momento o un episodio che ti ha fatto scattare la voglia di confrontarti con il poema omerico e il suo protagonista per raccontare l’oggi?
Spesso sono didascalico quando scrivo una canzone. In quel momento stavo leggendo l’Iliade e parallelamente trascorrevo la giornata facendo le solite cose. Notavo che Achille era solo e mi ci sono ritrovato molto. Anche quando si legge un gigante della cultura di quasi tremila anni, come Omero, è bello poterci dialogare, come fosse un discorso intimo e poterci rivedere le proprie emozioni.
Vai a costruire le campane è dedicata a tuo figlio. Nella storia della musica, quando si dedica una canzone a un figlio, soprattutto in Italia, si usa la delicatezza, la dolcezza. il tuo invece è un pezzo che sa di gospel ed esplode gioioso. Ti è venuto spontaneo usare questa “cifra stilistica” per questo brano?
È una canzone in cui volevo esprimere l’amore per la vita e il vivere fino al midollo tutte le cose. Per descrivere questo, secondo me, non c’è musica più bella di quella gospel. Alla dolcezza ho preferito l’ottimismo, la gioia e il sapere che le cose belle sono da festeggiare, così come lo è la vita.
I tuoi disegni sono una parte importante di questo disco e li ritroviamo anche sulla cover. Hai sempre mantenuto un rapporto con il segno grafico nel corso degli anni, parallelamente alla scrittura di musica e canzoni?
Ho sempre disegnato nella mia vita. Era un po’ di tempo che lo facevo su dei quaderni, in cui era come se raccontassi delle cose solo a me stesso. Successivamente ho deciso di rendere tutto ciò il cuore del disco.
L’ultimo concerto, che è anche il titolo di una canzone di questo disco, per te deve ancora arrivare… Il tour partirà dal Monk di Roma il 18 dicembre e toccherà molte città italiane: con che formazione suonerai e cosa ci dobbiamo aspettare?
L’inizio del tour sarà il 18 dicembre proprio a Roma, poi continueremo con le altre date a cominciare dai primi di gennaio. Spero di vivere quel concerto come fosse l’ultimo, cercando di dare tutto. La formazione sarà composta da cinque artisti: tastiera, chitarra, basso, batteria e me. Poi ci saranno un paio di concerti in cui porteremo sul palco una formazione più ampia, anche per festeggiare “l’ultimo concerto” in maniera ancora più spettacolare ed eclatante.
Nella foto in alto: Intervista pubblicata su WU 134
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