ALIOSCIA BISCEGLIA – I VENT’ANNI DI CRX
Un omaggio discografico per ricordare un album storico per tanti e una data live al Jazz:Re:Found che segna il ritorno sul palco di una band fondamentale non solo degli anni Novanta. I prossimi dieci anni dei Casino Royale iniziano così
di Enrico S. Benincasa
Esce oggi 17/11 CRX – 20th Anniversary Edition, un doppio album che contiene il masterpiece dei Casino Royale rimasterizzato e un altro disco di omaggi sotto forma di remix e cover da parte di artisti che hanno visto in CRX una parte importante quanto meno dei loro ascolti, da Levante a Ralf, da Edda a Fabrizio Mammarella. Abbiamo incontrato Alioscia Bisceglia per parlare di questo anniversario e del prossimo ritorno sul palco dei Casino Royale, che suoneranno dal vivo al Jazz:Re:Found di Torino il prossimo 2 dicembre.
Si torna a suonare dal vivo?
È un periodo abbastanza intenso. Questo ritorno al live è stato inaspettato, sono cinque anni che non saliamo sul palco. L’ultima data è stata a settembre 2012. Quella al Jazz:Re:Found non sarà una reunion, ma l’inizio dell’ennesimo nuovo viaggio dei Casino Royale. In questo c’è lo zampino di Denis (Longhi, direttore artistico di JZ:RF, NdR): dall’inizio dell’anno, per via del ventennale di CRX, ha iniziato a martellarci ma l’ho sempre rimbalzato, come anche altri organizzatori di festival. Poi abbiamo fatto due pezzi nuovi, li abbiamo provati e, quando l’ho detto a Denis, mi ha risposto: «Invece che celebrare i 20 anni di CRX, celebriamo i prossimi dieci dei Casino Royale». Con questa frase mi ha convinto, perché mi sembrava più logico e più interessante che risuonare semplicemente questo disco.
In quanti ve lo hanno chiesto?
Tante persone, soprattutto quelli che hanno visto nei Casino Royale un punto di riferimento come suono e come progetto. Pur non avendo avuto un successo mainstream, ci accorgiamo che siamo stati un gruppo importante per gente che ha iniziato percorsi nella musica, nella comunicazione, nella moda, nel design, nella creatività in generale. Mi è capitato più volte di incontrare qualcuno che oggi lavora in questi ambienti che mi ha confessato che, il mondo raccontato dai Casino Royale, gli ha fatto prendere una strada piuttosto che un’altra.
CRX è un disco seminale per più di una generazione…
La cosa più assurda e più divertente allo stesso tempo è che CRX è l’album che ci ha mandato “a male”. Abbiamo continuato a suonare, ma quel disco ci ha messo in crisi: Giuliano se n’è andato dopo, i discografici si immaginavano un percorso più Sanremo, ci chiedevano di addolcire un po’ la pillola insomma. Noi – io in primis – eravamo un po’ “komeinisti” e non ne volevamo sapere. Mi hanno detto in molti che CRX, ascoltato oggi, è ancora super attuale e coerente. In altri album nostri forse ci sono delle imperfezioni per quanto riguarda la coerenza dei pezzi, in Dainamaita o in Sempre più vicini per esempio c’era magari quella canzone che non c’entrava nulla, in CRX non la trovo.
Oltre alla coerenza interna, perché secondo te è rimasto così impresso nelle persone?
Non abbiamo inventato nulla, abbiamo fatto una sintesi di quello che si respirava in giro. CRX è stato la nostra chiave di lettura di quelle che erano le nostre matrici e di come erano fermentate, in simbiosi con quello che succedeva all’estero. Lavoravamo un po’ guardando fuori confine, volevamo fare un prodotto che potesse essere apprezzato non solo in Italia. Il nostro “benchmark di coolness”, quindi, aveva un profilo internazionale e quello è un disco di pop internazionale. Il claim che avevamo usato era “il suono dei miei simili”, io ho sempre pensato che il suono fosse qualcosa di identitario, così come il vestirsi o come ti poni. Abbiamo un background anni Ottanta, bande giovanili e tutto il resto e, anche se erano anni di cambiamento, la tua diversità si continuava a esprimere attraverso queste cose. Avevo in testa anche un altro claim, “non vergognarti più della musica italiana”. Volevamo fare un disco che non fosse paraculo e dentro quel groove fatto da anime differenti c’è anche quella italiana. Ci ha fatto soffrire tantissimo, ma il fatto che sia stato un lavoro seminale per tante persone bilancia questa sofferenza.
C’è un’anima italiana ma anche tante influenze musicali di matrice black…
È un disco delle ritmiche molto minimali. È un po’ “triphopposo” perché è pieno di riverberi scuri, c’è della drum ‘n’ bass, ma è anche un disco autoriale e ha degli anthem come “io rifletto” che rimangono in testa. Ci siamo detti più volte dobbiamo fare un altro CRX, ma c’è una sintesi, un equilibrio che si capitano solo in certi momenti. E quella sintesi l’abbiamo trovata a Londra, a Leyton, deep east prima che lo diventasse sul serio. Eravamo in un ghetto con alcuni ragazzi di origine africana e giamaicana che ci hanno dimostrato un sacco di entusiasmo. Siamo riusciti a fare una cosa non “inquinata” dai problemi di quando fai pop in Italia, non ci siamo fatti condizionare certo dal «passerà in radio o no».
Quell’anno suonaste anche prima delle due date italiane degli U2, a Reggio Emilia davanti a una marea di persone…
Abbiamo fatto sia Roma sia Reggio Emilia. Eravamo sotto la Polygram, che fa parte di Universal, in ogni Paese dove andavano gli U2 si facevamo mandare il catalogo e sceglievano le band per gli act di apertura e scelsero noi. È stata un’esperienza tosta. Prima di noi suonarono i Prozac +, avevano il tormentone di Acido Acida ed erano super easy. Era un contesto prettamente rock, gli U2 per esempio cambiarono la scaletta solo per i concerti italiani andando a pescare cose come I Will Follow dai loro primi dischi. Noi siamo andati su quel palco con un live downbeat, molto da club, in una situazione 100% rock. A Roma fu abbastanza un incubo: non volevamo cambiare tutti i nostri pezzi e siamo saliti sul palco con un’energia un po’ “polleggiata”, diciamo. Ricordo che arrivò sul palco anche un cavolfiore, impacchettato con il prezzo del supermercato. Immagina uno che è andato a comprarlo, se lo è messo nello zaino, si è fatto lo sbattimento di arrivare presto per prendere la prima fila per poi avere la possibilità di tirarlo sul palco, ogni volta che ci penso… A Reggio Emilia invece siamo usciti fuori con un grinta differente: in contesti del genere sei tu che devi fare più brutto al pubblico, altrimenti ti mangia vivo. Lì l’abbiamo portata a casa bene a mio parere, considerando che il nostro beat in quel contesto è qualcosa di estremo. Un concerto comunque epocale per l’Italia: loro che arrivano in aereo, dall’aereo scende Bjork, scende Howie B (che mise i dischi in apertura, NdR)…
Con Howie B, poi, ci avete anche lavorato.
Sì, e ne abbiamo parlato, si instaurò una sorta di legame karmico tra lui e noi quel giorno. Per noi era importante fare un live particolare, dall’allestimento ai visual, avevamo il dj sul palco durante il live e un altro in chiusura che metteva drum ‘n’ bass fatto venire apposta da Londra. Volevamo costruire un’esperienza, avevamo lo stand del nostro merchandising con una linea che producevamo noi. Una cosa che è un po’ implosa perché gestivamo tutto in prima persona, ed è dura farlo e farlo bene. Avevamo un rapporto con la casa discografica ma sostanzialmente eravamo imprenditori di noi stessi, e si passava più tempo a gestire il tutto che a fare gli artisti. Abbiamo poi sperimentato con l’etichetta e prodotto altri, poi il progetto del 2002 sul web dove non “esistevamo” ma c’era solo un sito da cui ti scaricavi il disco. Anche quella fu una bella intuizione, forse troppo presto per il momento che attraversava il web.
Il disco che esce ora è un omaggio a CRX…
Sì, esatto, un omaggio fatto da diverse persone al progetto Casino Royale. Ci puoi trovare Opus 3000 di Francesco Leali con la pianista classica, Ralf, Max Casacci con Demonology, Levante e questo ti da l’idea della trasversalità di quell’album. Non sapevo che per Ralf quello fosse un disco importante, uno di quelli che aveva consumato, lui ha sempre fatto cose diverse da noi anche sul clubbing. Non mi sarei immaginato neanche che a Fabrizio Mammarella piacesse quel disco, anche per un discorso di età. Ma anche altri mi hanno stupito. Per esempio, quando ho conosciuto Salmo mi ha detto: «Siete quelli di CRX, quelli del cane?». In sostanza non è un disco pop, se non l’hai vissuto in quel momento ci “inciampi” per ricerca personale o perché qualcuno ti instrada.
L’unica data dal vivo la fate al Jazz:Re:Found, quindi…
Al momento sì. È un festival unico a livello di identità, rappresenta il punto di incontro tra le sfumature di un certo tipo di matrice black della musica. Ci abbiamo suonato due volte, e già allora si capiva che, anche se organizzato in provincia, questo festival aveva un gran potenziale dal punto di vista dell’intuizione. C’è ora una massa critica legata a questo mondo di suoni che fa sì che oggi un festival del genere non sia di nicchia ed è in grado di attirare più generazioni. Va dato atto a Denis di non aver mai mollato, anche perché far durare un festival dieci anni non è facile in Italia. Ha fatto bene anche a spostarsi a Torino perché è una città bella dove passare un weekend lungo e gustarsi un festival.
In chi vedi oggi l’energia e l’approccio che ha contraddistinto i Casino Royale?
I tempi sono diversi, però vedo un po’ di nostri “figliocci” o di persone con cui abbiamo un legame che stanno facendo bene. Penso al mondo di Macro Beats, mi ricordo per esempio che nella casa di Garigliano al tempo di CRX giravano i mixtape di quel ragazzo calabrese che è oggi Macro Marco. Lo stesso Ghemon, nel primo disco sono stati diversi quelli che hanno visto un’attitudine simile alla nostra. Mi piace molto lo spirito di Hell Raton di Machete, per come gestisce il progetto, quel piglio imprenditoriale indipendente che ha. Sono stato a Londra a sentire Dj Tennis per il Manana Festival e nei suoi arrangiamenti ci ho risentito delle cose vicine a noi. Giorgio Mortari, che ideò Dissonanze e che purtroppo oggi non è più con noi, mi disse che uno dei nostri concerti di Sempre più vicini a Roma fu uno dei primi di cui scrisse un articolo. Sono persone che mi piacciono, che hanno fatto cose fighe e forse la direzione che hanno preso è stata un minimo influenzata da quello che abbiamo fatto noi. Ed è una grande soddisfazione.
(la foto in apertura di Alioscia è di Roberto Graziano Moro)
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