DAVID BOWIE, L’UOMO CHE CADDE SULLA TERRA
A due anni dalla sua morte, David Bowie rivive in un libro da collezione edito da Taschen. Una selezione di scatti inediti offre un dietro le quinte del film di fantascienza del 1976 con il Duca Bianco nei panni del protagonista
di Marzia Nicolini
Il 10 gennaio saranno già passati due anni dalla morte di David Bowie. Difficile scrivere parole che non siano di elogio di quest’uomo geniale, iper talentuoso, irriverente e fuori da ogni schema, avanti anni luce rispetto alla propria generazione per modo di scrivere musica, vestirsi, andare in scena, curare la propria immagine, recitare, rilasciare dichiarazioni. Sì, perché dire che Bowie sia stato solo un cantante è un’affermazione decisamente riduttiva: l’artista londinese classe 1947 si è dedicato con eguale passione a musica, arte, cinema, video, sostenuto da una personalità instancabilmente curiosa, poliedrica e camaleontica (spesso resa ancora più folle, borderline e sperimentatrice dall’uso/abuso di droghe). La stessa personalità che l’ha portato, nel corso degli anni, a reinventare costantemente il proprio stile e la propria immagine. La prova la si ha sfogliando le pagine del nuovo libro da collezione – un must per i cultori del genere – The Man Who Fell to Earth (L’uomo che cadde sulla terra), edito da Taschen (collana Bibliotheca Universalis).
L’autore Paul Duncan, storico del cinema e curatore di una cinquantina di libri dedicati a film per Taschen, tra cui i celebri The Ingmar Bergman Archives e The Godfather Family Album, ha voluto dedicare il suo ultimo progetto a questo film del 1976 che vede David Bowie nei panni del protagonista. Di cosa si tratta? L’uomo che cadde sulla terra, a suo tempo, generò non poco rumore tra media e pubblico. Reclamizzato come «un’esperienza che allarga la mente», il lungometraggio porta la firma del regista e direttore della fotografia inglese Nicolas Roeg e, come ricorda Duncan, «sconvolse il mondo intero».
A essere insolita è, innanzitutto, la prospettiva del film, che si pone per la prima volta nei panni dell’alieno “impostore” e non dei terrestri, usando il suo punto di vista per raccontare la solitudine, i timori e le sconfitte della civiltà attuale, portando avanti una critica niente affatto velata. E qui entra in scena David Bowie, all’epoca ventinovenne (il 1976 è l’anno del suo album Station to Station e delle performance live nei panni del Thin White Duke, uno dei numerosi alter ego dell’artista inglese).
David Bowie se la cava benissimo davanti alla telecamera, riuscendo con la propria immagine androgina, per molti versi ambigua e inquietante, a dare spessore e credibilità a Thomas Jerome Newton, personaggio tutt’altro che “ordinario” (alcolizzato, depresso, paranoico, per dirne alcune). Un debutto cinematografico osannato dalla critica e dai fan. Bowie, al tempo fortemente dipendente dalla cocaina (tanto che la sua proposta di colonna sonora per il film fu scartata perché giudicata troppo delirante), è destinato a una popolarità da vera star. Al regista Roeg il merito di avere ottenuto una prestazione eccezionale dal proprio cast, con Bowie in stato di grazia nei panni dell’etereo viaggiatore spaziale che giunge sulla terra per trovare una soluzione ai problemi che minacciano il suo pianeta, e attori secondari come Candy Clark, Rip Torn e Buck Henry che non furono da meno.
In occasione del quarantesimo anniversario di L’uomo che cadde sulla terra, Taschen ha raccolto un gran numero di fotogrammi e scatti dietro le quinte firmati dal fotografo di scena David James. Neanche a dirlo, la maggior parte di essi riguardano Bowie, splendidamente ambiguo e ispirato. Come ricorda Candy Clark: «David amava curare i dialoghi: voleva che fossero perfetti». Per ammissione del regista Roeg, «diverse persone erano scettiche riguardo alle capacità di attore di Bowie, intimoriti dal suo modo di fare bizzarro fuori dagli schemi. E questo non faceva che renderlo più attraente ai miei occhi». Bowie stesso si fa coinvolgere al cento per cento dalle riprese e dal progetto, che sente vicino alle proprie corde: «Sono tanti gli aspetti del film che trovo estremamente contemporanei», ha dichiarato poi. «A partire dal ruolo da protagonista assegnato all’alcol: il livello di degradazione e distruzione a cui può portare, viene reso incredibilmente esplicito».
Bowie, ai tempi delle riprese, era già parecchio celebre. Sul set pare che abbia colpito tutti per il suo essere down to earth, alla mano, con i piedi per terra. Niente pose da grande star? A quanto si sa, era spesso accompagnato dal figlio Duncan Jones (avuto dall’ex moglie Mary Angela Barnett) e tra una ripresa e l’altra continuava a scrivere brani musicali, oltre alla sua autobiografia in forma di racconti The Return of the Thin White Duke. David Bowie, che nel film appare con capelli biondo-rossi, viso bianco pallido e fisico più asciutto che mai, si affidava molto all’istinto quando recitava. Non solo: «A dire il vero mi sentivo spesso alienato, tanto quanto lo era il protagonista della pellicola. Ero insicuro di me, nonostante i dieci grammi di cocaina che prendevo giornalmente. Ero completamente fuori, dall’inizio alla fine». Questo, forse, è l’aspetto più controverso: palesemente cocainomane, Bowie sembrava dare il meglio di sé. Critiche e moralismi a parte, vale la pena guardare almeno una volta il film. E constatare come, a distanza di oltre quarant’anni, resti così straordinariamente all’avanguardia.
Articolo pubblicato su WU 84 (dicembre 2017 – gennaio 2018). Segui Marzia su Facebook
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