DOGMAN, SOLO COME UN CANE
Reduce da dieci minuti di applausi al 71° Festival di Cannes, il nuovo film di Matteo Garrone ci porta in una periferia sospesa tra metropoli e natura dove vive, in mezzo a tanta violenza, il toelettatore Marcello
di Gaetano Moraca
In una terra di nessuno, sospesa tra la pioggia e il buio della notte, si estende una periferia italiana cosparsa di mostri urbani non terminati e poveri cristi interrotti che scelgono i modi peggiori per guadagnarsi da vivere. È qui che Matteo Garrone ambienta Dogman ed è qui che colloca Marcello (Fonte, Prix d’interprétation masculine a Cannes), professione toelettatore di cani, mingherlino, non bello, umile, ben voluto da tutti e contento che sia così. Si divide fra l’amore per i cani degli altri e quello per sua figlia Sofia a cui promette l’impossibile, come portarla a fare immersione alle Maldive. Nel tempo libero va a farsi una partitella a calcetto con gli amici, una pastasciutta nell’unica osteria del quartiere, una giocata alle slot machine e si fa costringere da Simoncino, ex pugile e seminatore di violenza, a prendere parte a furtarelli o a procurargli la cocaina.
Ognuno di noi nella propria vita scolastica ha avuto un compagno come il Marcello di Dogman (se non lo eravamo noi stessi): i capelli un po’ unti, un sorriso non armonioso, una voce poco gradevole, una leggera incurvatura delle spalle e un’andatura ciondolante. Quei compagni che fanno di tutto pur di far colpo sul resto della classe e che in un contesto violento tendono a soppiantare la propria mitezza. Per non rimanerne schiacciato, Marcello è succube infatti di un rapporto sado-masochistico con Simoncino, arrivando a scontare un anno di carcere al posto suo. Una volta uscito di prigione però realizza che nel quartiere è inviso a tutti poiché considerato un traditore e la sua proverbiale bontà lascia il posto alla vendetta. Non vuole uccidere, vuole solo delle scuse. È un cane ferito, Marcello, e improvvisamente solo e la solitudine non fa bene a nessuno.
E se durante Dogman la violenza scatenante da quelle solitudini può sembrare eccessiva, il giorno dopo ci si ricorda solo dello sguardo perso di Marcello, dei suoi occhi ingenui che cercano l’approvazione della figlia e degli altri abitanti di quella terra dove non splende mai il sole. Emblematica la scena in cui, come in una Pietà al contrario, l’esile canaro trasporta in spalla il cadavere del pugile, esibendolo come trionfo di giustizia ai suoi amici che stanno giocando a calcetto solo nella sua fantasia. E in tutta quella desolazione che ci porta questa scena di Dogman, Marcello e i suoi cani diventano struggente poesia.
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