MARTINO CERATI – LA MISTICA DELLA LUCE
Dai mixer luci delle fiere di provincia al light design per Liberato, da 15 anni illumina i palchi di tantissimi artisti italiani e non. Perché musica e luce, in fondo, sono mezzi di comunicazione
di Alessandra Lanza
Intervisto Martino Cerati a fine estate, reduce dai concerti in giro per l’Italia di Calcutta, Franco126 e Levante, artisti di cui ha curato i live dal punto di vista dell’illuminazione, insieme a nomi come Cosmo, Liberato, I Cani, Di Martino, Blonde Redhead o Nigiotti. Nato a Cantù nel 1986 e cresciuto a Mariano Comense, nella sua vita ha fatto un po’ di tutto. A partire dagli studi di Aeronautica, col sogno di diventare pilota, per poi passare alla scuola d’arte e pubblicità, a organizzare eventi nella ex bocciofila di paese, fare l’operaio in fabbrica, l’art director e la politica, l’operatore video, finché è stato “sequestrato” dai Punkreas, nel 2005: sistemato nell’ultimo posto in fondo al furgone, ha fatto da operatore luci a pochi euro e in tutta Italia. Artefice di capolavori del light design come i live di Cosmotronic o gli show di Liberato, Martino Cerati quando si annoia dà ancora una mano agli amici alle feste della birra e, nel tempo libero ritagliato in tour, che sia di un cantautore o di un mago illusionista, piuttosto che riposare si improvvisa pescatore.
Come sei finito a occuparti delle luci?
Perché mi piace e mi diverte. Mio padre quando ero ragazzo mi ha detto: «Se investissi nel lavoro l’1% dell’impegno che metti nelle tue cazzate, saresti a posto per sempre». In risposta ho investito più dell’1% sulle mie cazzate e questo ha fatto sì che diventasse un lavoro. Nel 2013 mi sono accorto che le persone che ritrovavo nei locali, dopo anni di tour, erano passate dall’insultarmi al fare di tutto per darmi una mano, con rispetto. Allora mi sono reso conto che stavo facendo un buon lavoro – e che era il mio lavoro. All’inizio era uno sfogo, e anche adrenalina: quando un gruppo è sul palco c’è quel momento in cui accendi più luci, il pubblico risponde e ti senti onnipotente. Poi è diventata presa di coscienza che potevo usare la luce per comunicare. Ora il mio sogno sarebbe in realtà fare un lavoro da impiegato con orario 8-17, che a fine giornata timbra e va al bar di paese per uno spritz, anche se non sopravviverei senza JustEat e Car2Go.
Perché ti piace così tanto?
Forse perché non riesco a stare fermo: in Italia siamo abituati a una vita folle, che alla fine dà dipendenza. Inizi a caso e la porti avanti perché ci credi, o non la faresti mai. Calcutta non l’avremmo altrimenti mai fatto in quel modo, con quelle economie e con quei tempi. Il vecchio show lo abbiamo programmato io, Ziliani e un amico in 14 ore filate, di notte, a -7 gradi a Marghera. Chi cazzo lo fa nella vita? Lo fai solo se sei un esaltato che crede tantissimo in quello che sta facendo.
Quanta tecnica e quanta creatività c’è nel tuo lavoro?
Il mio lavoro è molto creativo, ma passa alla tecnica in un secondo, e tecnica è uguale budget. Di solito ci sono pochissimi soldi. Per Calcutta faccio il progettista, ma anche l’operatore. In Italia è una cosa che spesso accade, mentre all’estero le figure non si sovrappongono.
In cosa consiste la tua parte progettuale?
Farsi trip dove possibile. Ogni artista ti porta da qualche parte e io ne seguo pochi perché sono molto selettivo e pretendo da loro il 100% dell’autonomia. Lavorare col mercato mainstream non mi porterebbe a progettare con l’artista e a farmi questi trip. In ogni caso parto sempre da una serie di forme e anche forse dalle idee che ho in testa in quel momento, inconsciamente.
Cerchi ispirazione altrove?
Non così tanto: vorrei nutrirmi di altre cose per farmi ispirare, ma alla fine sono sempre troppo tecnico. Passo tanto tempo a guardare immagini di progetti altrui su Pinterest, partendo da parole semplici tipo “palco”. Quando comincio un progetto è la prima cosa che faccio. E poi va a finire che inizio sempre dalla grafica, avendo studiato pubblicità. Mi piace pensare allo stage come a una linea e a un quadrato: partire da figure ed elementi grafici è una bomba perché ti porta a immaginare il palco come un foglio di carta. E da lì si cerca di renderle sostenibili, perché ci sono sempre e comunque limiti di budget. Cosmotronic è questo: una scatola riempita di fari, con sorgenti ovunque, resa sostenibile tecnicamente ed economicamente.
Il budget in generale castra?
Sì. Spesso finisco per realizzare investimenti perché mi permette di fare un po’ quello che voglio. Quando posso e ci credo, investo. Le prime cose che cerco in un artista sono serietà e voglia di rischiare. Ho rinunciato quasi solo a quei progetti in cui mi avevano offerto cifre talmente irrispettose che se avessi accettato non sarei stato un professionista. Una volta ho proposto una cifra e mi hanno detto: «No: se pago così te cosa faccio con tutti gli altri professionisti che pagavo prima?». Io ho risposto: «Sì, ma se io a te la cifra che mi proponi come faccio con tutti gli altri?», e mi hanno dato ragione.
Qual è il costo minimo per uno show decente?
Non c’è. Quando un amico mi chiede quanti soldi voglio, gli dico “fai tu”. Chiedo una cifra precisa a un cliente che non conosco, e non è manco detto che gli chieda i soldi che vorrei davvero. Se il progetto è figo e ci credo chiedo poco, nei limiti della dignità, e diventa una questione di fiducia – che poi a volte si rivela un problema. Tolti i materiali, il costo va dal “lo faccio in amicizia e mi offri da bere” a “un sacco di soldi” – più vitto, alloggio e sopravvivenza – a seconda del tipo di progetto, delle giornate di lavoro e di eventuali prove, e così via.
Davanti al mixer cosa succede? La vivi come una performance?
Dipende. Alla festa di provincia dove aiuto un amico accendo un paio di luci e alterno rosso e blu. Calcutta lo seguo con la luce frontale mentre si muove sul palco. Con gruppi come i Verdena, con cui ho lavorato sostituendo per qualche data il maestro Joe Campana nel 2013, non c’è modo di poter avere una produzione automatizzata, quindi fai moltissimo lavoro a mano, come se stessi “suonando” il mixer. E anche con I Cani. Anche quella che ho curato per Cosmotronic era una performance: non dal vivo, ma di tutto quel personale momento creativo. Per il resto oggi non riesco più a fare lavori in cui devo “giocare” a mano con il mixer: fatte le dovute eccezioni, come Calcutta, in cui intervengo a mano in qualche piccola parte, non mi interessano più, e finito il progetto, il live è tutto automatizzato.
In cosa consiste l’errore nel tuo lavoro?
La regola base è che se le luci fanno schifo qualcuno a fine concerto si lamenterà di qualcosa. Se nessuno si lamenta di niente allora hai fatto un bel lavoro. Sempre. Illuminare una canzone con quattro colori contemporaneamente, a pizzeria, tendenzialmente è un errore. Dal mio punto di vista, molto soggettivo, l’errore è non credere nel lavoro che stai facendo, nel viverselo male. Nel mio campo l’errore è chi lo fa senza ammettere che lo sta facendo per divertimento. È un lavoro mistico. Io non mi diverto abbastanza, lo facessi di più potrei arrivare a molto di più.
Cosmotronic è stato lo show più difficile che hai curato?
È stato difficilissimo, un enorme rischio. Ho speso molto con il mio socio Alessio Losito, facendo più di un investimento, e ho preso tutto quello che non volevo o odiavo, compresi i laser. Un’amica che stimo creativamente tempo prima mi aveva criticato, descrivendo il mio lavoro come qualcosa di inestetico e ha cambiato la mia prospettiva; così Cosmo è stato l’esatto opposto di quello che avevo fatto fino a quel momento. È stato un progetto perfetto, curato al millimetro, in cui ho concentrato tutte le mie paure. Ed è stato una bomba, lo considero metà suo e metà mio. Suri (il fonico di Cosmo, NdR) mi prende ancora in giro definendolo la mia Guernica.
E su Liberato cosa mi dici? Ho visto lo show di Roma e l’ho trovato bellissimo.
È stata una ricerca estetica creativa a più mani e molto diversa da quella passata. Lo stage design e il light design è mio, e poi c’è un approccio visuale studiato con il duo di artisti Quiet Ensemble.
È aumentato in modo esponenziale l’uso di video e visual dietro agli artisti in Italia, o sbaglio?
Anche troppo. Per la creatività dei video di Calcutta ho coinvolto il mio collega e art director Filippo Rossi perché trovo perfetto il suo approccio per lui. La domanda esistenziale di qualunque show da qualche anno a questa parte è: come facciamo a mettere un megaschermo senza fare i Modà? Tendenzialmente lo schermo rompe le palle e nove volte su dieci è usato per proiettare le telecamere. La seconda domanda, visto che Filippo si era occupato della additional creativity per il precedente tour di Jovanotti, è stata: come facciamo a non rifare Jovanotti? E poi c’era Edoardo che voleva la direzione creativa. Mi sono ritrovato in riunioni in cui loro due parlavano di follie, e io dicevo: «Ok, ma un po’ di eleganza?». Il video è strausato e usato male, ma il mio approccio, la sfida a monte, è tenere a mente che il video come l’illuminazione sono dei mezzi di comunicazione. Quindi vanno affrontati in questo modo, cosa che nessuno quasi mai fa. Tutti dicono “usiamo i video sul palco”, ma poi non sanno che farci. Edoardo non è magari l’esempio perfetto di realizzazione, ma è molto centrato. Abbiamo volutamente esagerato, con uno schermo enorme, una menata da gestire, ma non volevamo scappare da questa scelta, e volevamo che tutto il resto ci girasse intorno. Latina e Verona erano l’all in, ma sono per noi stati degli esperimenti, che si sono completati in maniera definitiva e perfetta nei palazzetti.
Con chi ti piacerebbe lavorare oggi?
Se lo dico ho perso già il lavoro. Non ho una pretesa con qualcuno, ne ho uno ma per sfizio, non per gusto. Ce ne sono altri per motivi di rivalsa, che non dirò mai. Fa parte di un percorso emotivo intimo.
Come si vede Martino Cerati tra 10 anni?
Morto. Ho un’amica che lavora con me e mi obbliga ad andare a vedere i concerti, visto che di mio ne farei a meno. Ha anche la lista di chi potrà entrare al mio funerale e chi no. Scherzi a parte, spero comunque sarò a vedere mostre e con una buona dose di esperienza e capacità creativa per realizzare cose con piacere e senza grandi difficoltà e discussioni infinite sui budget.
Intervista pubblicata su WU 98 (ottobre – novembre 2019). La foto in apertura è di Alessandra Lanza. Segui Alessandra su Instagram e Linkedin
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