SULLE TRACCE DEI SURFER
Il libro Surf Shacks osserva la community dei surfisti da una prospettiva inedita: le loro case. Più simili a rifugi – spartani, freak e affascinanti – non sono mai troppo lontane dal mare. La tavola? La trovate in sala, immancabile protagonista di luoghi di vita super ottimisti
di Marzia Nicolini
Partiamo da un presupposto: il surf non è solo uno sport, ma una filosofia. Anzi, in molti sostengono che assomigli più alla religione: perché l’esperienza di surfare sulle onde è di per sé intensamente spirituale e la paziente attesa di quella perfetta – alta, potente, lunga – richiede una fede e una costanza pari a quella di un credente (fervente, aggiungiamo noi). Anno dopo anno, la community dei surfisti si fa sempre più ampia e nutrita. E, buona notizia, dopo esordi piuttosto maschilisti, oggi si è ufficialmente aperta all’ingresso di molte e tostissime donne, tra cui la campionessa australiana Bethany Hamilton, tornata sulla tavola senza un braccio dopo essere sopravvissuta all’attacco di uno squalo tigre.
E se tutto sappiamo della loro esperienza in acqua – ambiente adottivo per eccellenza – che ne è dei surfer una volta rientrati sulla terraferma? A interessarsi di questo aspetto, più intimo e a oggi meno esplorato, è il nuovo libro Surf Shacks edito da Gestalten. Curato dal collettivo Indoek, specializzato in surf culture, il volume focalizza l’attenzione sulle abitazioni. I loro spazi di vita di ogni genere e metratura, accomunati da alcuni punti fermi. Numero uno: le tavole entrano in casa, raramente sono solo relegate all’esterno. Ecco che allora tavole di ogni taglia si mimetizzano nell’arredamento domestico, degne protagoniste e oggetto di culto, ben oltre la loro prestazione in mare. Numero due: sapete come i surfer siano noti per la loro attitudine rilassata e informale alla «vivi e lascia vivere»? Ecco, le loro abitazioni – siano esse rifugi mini size o appartamenti più standardizzati – riflettono appieno questo spirito, che si traduce in un interior vivace, gioioso, spesso freak, ma nel senso migliore del termine. Tra souvenir del mare, legno a vista e tessuti colorati, l’impressione è quella di spazi abitativi votati all’ottimismo. Poi c’è la vicinanza alla costa, perché un vero surfer non si allontana mai troppo dalle onde.
Capita di frequente che i surfisti sposino uno stile di vita nomade: in questo caso, un van in stile hippy diventa la casa dei sogni, agile e su quattro ruote, perfetto per rincorrere gli angoli di paradiso del surf, senza l’urgenza di dover mettere radici. Gli autori del libro si sono divertiti a raccogliere storie e fotografie girando tutto il mondo. Perché se esistono luoghi storici del surf – Australia, Nuova Zelanda e Hawaii in testa – oggi i surfer sono sparsi in ogni angolo del pianeta (anche l’Italia, per esempio, ha dato prova di avere ottime onde, come quelle alte e selvagge della Sardegna settentrionale, attirando frotte di surfisti).
Dal Surf Shacks emergono scorci di esistenze vissute pienamente, sempre con una punta di originalità. Qualche esempio: ci sono gli innamoratissimi Jess Bianchi e Malia Grace Mau, lui filmmaker, lei designer di gioielli. La loro casa a Kauai, isola hawaiiana tutta montagne e piante tropicali, è stata realizzata dall’artista di San Francisco Jay Nelson e sembra la versione raffinata e super confortevole di una capanna alla Robinson Crusoe: immersa nella foresta, con la sua semplice architettura di legno locale, non dista molto dalla riva e ha tutto quello che serve per condurre una vita senza stress. Altro che burnout… Oppure c’è il biondo Sam McIntosh, il physique du rôle del perfetto surfista e il merito di aver fondato la rivista australiana “Stab”, ovviamente dedicata al mondo del surf. Vive a Bondi Beach, non lontano dal centro di Sydney, e la sua casa è una scenografica abitazione degli anni Venti arroccata su una scogliera che si affaccia sull’Oceano. La vetrata del soggiorno si apre sull’Oceano, in una simbiosi architettura-paesaggio pressoché totale.
Nel bosco di Topanga, non distante da Los Angeles, il rifugio di Mason St. Peter e Serena Mitnik-Miller, professione ufficiale architetti-artisti, è forse da outsider nella sua distanza dalla civiltà, ma sicuramente affascina per la sua purezza. Porte e finestre restano sempre aperte e il fatto che il mare non sia vicinissimo passa in secondo piano. In fondo basta un’ora di auto e si arriva alla spiaggia. Qui, in compenso, ci si rilassa in una dimensione contemplativa, lontana da tutto e da tutti, tra caprioli e scoiattoli.
Anche la casa di Matt LeBlan, a Venice Beach, ha tutta l’aria di essere un’oasi di pace, dove decomprimere e rallentare il ritmo. Per lui, imprenditore francese di successo innamoratosi degli USA diversi anni fa, il surf rappresenta l’hobby perfetto (anche se chiamarlo hobby è certo riduttivo): «Non puoi mai prevedere quel che succederà in mare, proprio come succede nella vita». Ed è così, forse, che si coltiva l’arte della pazienza. Un mood totalmente pacifico. Che si legge in ogni angolo di queste case. Solari e tenaci tanto quanto i loro proprietari.
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