ALBERTO PRINA – FESTIVAL DELLA FOTOGRAFIA ETICA
Giunto all’ottava stagione, il Festival della Fotografia Etica di Lodi propone quest’anno l’edizione più ricca di sempre, tra mostre, incontri, workshop, letture portfolio e altri eventi con ospiti eccezionali e una partecipazione internazionale. Ce lo presenta Alberto Prina, uno dei suoi creatori
di Alessandra Lanza
In quel 2010 in cui è nato il Festival le cose erano partite da una piccola, ma ambiziosa idea di Alberto Prina e di Aldo Mendichi con il Gruppo Fotografico Progetto Immagine, cresciuta poi come una pianta: lentamente e con radici solide, dalle prime tre mostre allestite alle 32 che si contano oggi, sparse per la città di Lodi che, secondo gli organizzatori, incarna la provincia lombarda, con la sua immobilità e i suoi difetti, ma che per quattro weekend al mese riesce a trasformarsi in un centro vivo e internazionale. Il Festival della Fotografia Etica, quest’anno dal 7 al 29 ottobre, porta avanti un programma fitto, ma a un prezzo democratico, 12 euro. Il braccialetto d’ingresso resta valido per tutta la durata della manifestazione, in cui anche quest’anno tra i protagonisti spiccano le ONG, che attraverso gli scatti raccontano vicende nascoste e trasmettono messaggi che di etico hanno molto Al centro di questa edizione il concetto di solidarietà con una mostra (Solidarietà fertile), progetti di formazione in partnership con Fondazione Cariplo e una partecipazione speciale del collettivo Noor, che racconta in 100 immagini il mondo negli ultimi 10 anni, tra guerre, migrazioni e mutamenti climatici.
Alberto Prina, so che siete stati ispirati dai festival francesi di Arles e Perpignan…
Diciamo che il pensiero di fare un festival a Lodi era nato quasi 15 anni prima. Poi io e Aldo siamo come rimasti folgorati sulla via di Perpignan e abbiamo sentito l’esigenza di metterci all’opera. Da subito abbiamo avuto un’adesione fortissima.
Come mai “etica”?
Ci siamo chiesti: «Che tipo di festival potremmo fare?». Da una parte ci interessava il fotogiornalismo, dall’altra la fotografia commissionata dalle ONG, che sì racconta il sociale, ma con uno scopo di cambiamento e aspirazioni forti. Il nome, poi, era inedito. Anche il nostro modus operandi è etico. Grazie alle condizioni favorevoli della fotografia siamo riusciti a stabilire un biglietto d’ingresso e a trasformare il festival in un’attività professionale che genera valore sul territorio. È uno dei vantaggi enormi del no pro t: si sostiene economicamente, ma senza finalità di lucro. Un valore etico sconvolgente.
Qual è stata la carta vincente per accreditarvi al pubblico e diventare sempre più “europei”?
Sempre più mondiali! Oggi abbiamo una partecipazione al 70-80% di fotografi stranieri. Dobbiamo moltissimo agli incontri fatti a Perpignan, con autori eccellenti che hanno creduto in noi. A segnare un momento di svolta è stato l’incontro con Eugene Richards, pietra miliare del fotogiornalismo internazionale, che ci ha sostenuto: da quel momento, intorno al 2012, è partita una forte internazionalizzazione. Così ci siamo contraddistinti per il nostro pensare globale e agire locale: la città di provincia sonnolenta, immersa nella nebbia e bloccata da un’economia stagnante diventa centro del mondo per quattro weekend all’anno e si apre ai fotografi che portano le proprie esperienze alle persone che le vogliono conoscere.
Per il World Report Award, fondato nel 2011, avete ricevuto quest’anno 772 candidature da fotografi di 51 nazionalità diverse. Dici che la percentuale di stranieri è alta, eppure tra i vincitori è forte la presenza italiana. Da cosa dipende?
Il fotogiornalismo italiano è di straordinaria qualità. Anche Ed Kashi, fotografo di punta dell’agenzia VII, si è domandato cosa ci sia nella nostra acqua. Da Francesco Zizola in poi gli italiani hanno saputo creare una cultura fotogiornalistica aggiudicandosi un numero elevatissimo di vittorie al World Press Photo. L’anno prossimo il festival metterà un forte accento sull’Italia e avrà un taglio molto nazionale. Siamo eri di essere portatori di questo valore italiano cui non corrisponde, purtroppo, il livello di cultura fotografica generale nel Paese.
Che ne pensi degli Stati Generali della Fotografia indetti dal MiBACT?
Di solito quando si indicono gli Stati Generali significa che si è messi molto male. Speriamo che quanto è stato avviato abbia un seguito, perché può velocizzare il percorso, ma la fotografia in Italia ha una sua strada che saprà imporsi in ogni caso. Noi collaboreremo molto con loro per la sezione educativa del progetto. Il terzo weekend del festival ci sarà con noi anche Lorenza Bravetta, alla guida della Camera di regia del MiBACT.
Qual è secondo te la missione della fotografia?
Connettere le persone. Definisco la nostra l’era Gutenberg della fotografia, un momento magico in cui la comunicazione funziona per immagini, una rivoluzione epocale, che non capita spesso. Facebook è solo l’inizio. Un festival come il nostro non sarebbe mai potuto nascere senza la comunicazione social: l’ecosistema cittadino che ci circonda non ci ha mai favorito.
Il codice etico del fotogiornalismo cambia in ogni Paese. Credi che prima o poi gli sforzi per trovare un terreno comune, come auspicato dal World Press Photo, saranno premiati?
Probabilmente sì, ma il grado di libertà è abbastanza ampio. Ci ispiriamo moltissimo al WPP. Anche se non abbiamo mai stabilito particolari legami, alcuni premiati hanno vinto prima da noi, come Francesco Comello o Darcy Padilla. E ci piace pensare che la loro categoria Long Term Project sia nata dopo che Padilla ha esposto da noi, che abbiamo sempre avuto una sezione per lavori più lunghi e di approfondimento.
C’è qualche peccato originale in generale nei festival di fotografia?
No, direi di no. Si sconta un classico problema italiano: quello dell’improvvisazione. La presenza di tanti festival diversi è certamente la testimonianza di un tessuto che non funziona bene.
(la foto in apertura è di Alessandra Lanza. Segui Alessandra su Instagram e Linkedin)
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