TXEMY – MANCHAS DE COLOR Y MOVIMIENTOS
Le sue opere sono la perfetta combinazione di colore e movimento. Il suo tratto creativo si trova a sua agio sia sui muri delle principali città del mondo sia su una tela in una galleria d’arte di Parigi, senza disdegnare qualche tavola da skate
di Andrea Zappa
Origini cilene, cresciuto a Tenerife ma catalano da anni, Txemy si definisce «un inquieto che non potrebbe mai dipingere una stessa tazza all’infinito». Un artista che ha iniziato dai muri per poi entrare nelle gallerie, cercando in ogni sua opera, al di là delle dimensioni, di trasmettere concetti e scatenare riflessioni. E lo ha fatto spesso con gli sguardi, perché «si potrebbero trattare innumerevoli tematiche solo rappresentandoli», ma anche con elementi più astratti che ci hanno fatto pensare a Pollock. E proprio parlando del pittore americano che cominciamo a chiacchierare con lui nella sua Barcellona.
Guardando le tue opere, si ritrova uno stile simile alla action painting, tipico per esempio di Jackson Pollock. Ti ritrovi con questa definizione?
Pollock è stato un riferimento molto importante per la mia arte. Quando ho deciso di fare l’artista mi sono prefissato di rispettare alcune scelte di stile e una di queste è il movimento. Tutto ciò che realizzo ha una componente dinamica importante che è presente non solo nel momento stesso in cui sto creando, ma che si evidenzia sulla tela o sul muro che ho scelto di trasformare. Non mi piace stare seduto con in mano un piccolo pennello, mi annoio. Credo che la pittura debba avere un’energia che non dipenda solo dalla lettura visuale che trasmette l’opera, ma dal tratto stesso che l’ha generata: la mia arte è fatta di macchie, colori e si basa sul fatto di tracciare linee con forza e senza paura.
Quali sono i pittori che ti hanno maggiormente ispirato?
Ce ne sono vari e di epoche diverse, sicuramente Pollock, Goya, Velázquez, Van Gogh, ma anche Basquiat. Loro sono quelli da cui sono sempre stato affascinato, ovviamente poi la mia rielaborazione è differente.
In che modo sei stato influenzato dalla tua famiglia?
In famiglia ho avuto stimoli n da piccolo: mia madre è stata una modellista, sono sempre stato circondato da disegnatori di moda, tessuti, materiali e tinte di colore. Mio padre, invece, ha avuto un laboratorio di serigrafia e da lui ho appreso moltissime cose, tra cui l’importanza della pulizia nella tecnica. All’inizio non avevo la minima idea di diventare un artista. Sono stato un pessimo studente, però mi è sempre piaciuto molto lavorare con le mani e così mi sono iscritto alla scuola di arte di Tenerife. Sono poi entrato a 18 anni all’accademia di Belle Arti perché non sapevo che fare della mia vita e lì, durante le classi di storia dell’arte, mi sono innamorato della pittura.
Come mai hai deciso di trasferirti dalle Canarie a Barcellona?
Perché nel 2001 Barcellona era lo spot mondiale dei graffiti, del post graffiti e del muralismo. Oggi la città ha perso parte della sua fama, anche per l’intervento del Comune che ha cancellato molte realizzazioni e ripulito diversi muri. Si è passati a un’altra concezione: si realizzano opere prevalentemente in aree speci che chiedendo permessi, la qualità tecnica e grafica sono cambiate, si utilizzano strumenti differenti per lavorare (impalcature, rulli, ecc.). Le pareti diventano dei fogli con misure prestabilite sui quali si alternano gli artisti.
Come ti comporti quando hai davanti il “muro” da dipingere?
Dipende, ci sono i lavori su commissione dove viene richiesto nello specifico di realizzare un’opera in un dato spazio. In questo caso è come creare su una tela, con la parete liscia e preparata. Amo molto però adattarmi alle geometrie del luogo e giocare con esse. Quando posso cerco di trovare le condizioni per creare un’opera: parlare con la gente di un dato quartiere periferico, qualunque sia la città del mondo, e chiedere se mi danno il permesso di dipingere un muro o uno spazio che ha richiamato la mia attenzione.
Il tuo tratto sembra apparentemente poco definito, come se fossero tante macchie di colore dalle quali poi si generano speci che forme. Come riesci a dare questo effetto?
Il mio stile, che è comunque sempre in evoluzione, nasce dalla combinazione di varie tecniche. Principalmente lavoro con delle teste modificate, che fanno uscire la vernice in maniera differente, dandole un effetto più pittorico. Contemporaneamente utilizzo anche il rullo o il semplice pennello. Mi piacerebbe essere un artista che non rimane ancorato a un formato o a una sola maniera di dipingere ma capace di dominare appunto tecniche differenti così da adattarmi al progetto o all’ispirazione che ho in quel dato momento.
Osservando la tua produzione, si nota che lavori su materiali distinti, dai muri alle tavole da skate no ad arrivare alla tela…
Diciamo che sono una persona inquieta. Mi piacciono le tele grandi, ma anche dipingere su pareti di media dimensione. Amo creare con gli strumenti base, un muro medio è ideale perché non sono necessarie grandi impalcature, gru e tutto quello che ti serve per dare vita a un’opera dalle misure importanti. Sono per la proporzione umana, rispettando l’allungo del braccio, al massimo utilizzando una scala.
Sei di origine cilena ma cresciuto a Tenerife, pensi che la tua anima isolana possa averti in qualche modo influenzato?
Sicuramente! Il clima, i colori, le sfumature della natura delle Canarie hanno avuto una forte influenza nella mia maniera di esprimermi e giocare con le tinte, nella maniera di cercare le sfumature e la scelta della gamma cromatica.
Passi da opere astratte a forme figurative con una certa facilità…
Non posso dedicarmi sempre e soltanto a un solo soggetto, mi annoio. Ho bisogno di cambiare, magari mantenendo uno stesso codice, una stessa identità, ma rappresentando quello che il mio cervello in quel dato momento ha elaborato. Cerco sempre di dare una carica concettuale a quello che creo, le mie opere sempre devono raccontare qualcosa. La testa stessa continua a maturare, vieni condizionato da quello che leggi, da un documentario che vedi, dalle notizie sui giornali. Nell’ambito della forma figurativa, lavoro molto con il tema dello sguardo, che per me racconta molte cose. La mia parte più astratta invece può arrivare a raccontare la poesia, ho fatto per esempio un lavoro a Parigi dal titolo El ballet de una gordita in collaborazione con uno scrittore. Lui raccontava con le sue parole la storia del movimento di questa ballerina grassottella, che ho rappresentato con quattro tele.
Quanto tempo impieghi a dare vita a un’opera?
Dipende. Sto lavorando ormai da mesi a una tela e non trovo la via di uscita per finirla. Soprattutto un quadro è qualcosa che, a livello teorico, può rimanere per l’eternità e quindi devo sentirmi soddisfatto quando lo concludo. Una volta ho impiegato più di un anno per terminarne uno. Anche lo stato d’animo è importante. In certi casi arrivo a metà di un lavoro, ma poi non riesco nemmeno a guardarlo, lo devo allontanare dalla mia vista. A volte è come se i quadri mi stessero guardando e mi chiedono «allora vieni a finirmi o no?».