COMA_COSE – PLAYING WITH WORDS
I Coma_Cose sono da poco usciti con Post Concerto, il loro nuovo singolo, forse l’ultimo prima del loro primo album ufficiale. Intanto si preparano ad aprire ai Phoenix a Parigi il prossimo mese. Merito delle “french fries”?
di Alessandra Lanza
Il loro primo singolo è uscito poco più di un anno fa e da inverno a Inverno (Ticinese) hanno conquistato un pubblico sempre più ampio. Concerti affollati e testi già a memoria, sarà che le punchline, autobiografiche o astratte, semplici o sofisticate, pop o criptiche che siano, non si lavano via facilmente. I Coma_Cose sono una delle migliori rivelazioni del 2017: il loro nuovo singolo Post Concerto è appena uscito, a maggio apriranno il concerto dei Phoenix a Parigi, usciranno con la prima raccolta, con tanto di inedito, e forse si chiuderanno in studio per scrivere il primo vero album. Fausto Lama (Zanardelli) e Francesca California (Mesiano), milanesi d’importazione – lui di Brescia, lei di Pordenone – hanno raccontato Milano Sud in quasi tutte le loro canzoni, ma di quest’epica da “terroni di città”, come ci racconta Fausto, si sono già un po’ rotti.
Che fine ha fatto l’underscore su Facebook?
Lo abbiamo perso per strada. È nato su Instagram per necessità e non c’è mai stato nel nostro logo: ora che il nome ha preso una sua entità potrebbe non servirci più.
È stato un anno di crescita rapida. Cosa vi ha fatto svoltare?
Per noi una crescita costante: quando pubblichiamo un pezzo stiamo già pensando al successivo, al video, alle foto, alla comunicazione, senza grande pianificazione a monte. Un tassello fondamentale è stato l’EP Inverno Ticinese, nato come una canzone poi strabordata in tre, attraverso cui abbiamo costruito un primo piccolo viaggio, dopo tanti singoli. Questo ci ha presentato come una band più solida e ha creato una certa attesa. L’attesa genera interesse e l’interesse genera hype.
Vi aspettavate accadesse così in fretta?
Io no, ero paranoico: faccio musica da qualche anno in più e conosco i tempi biblici. Francesca invece diceva: «Queste cose sono belle, piaceranno». Alla fine sta andando bene. Abbiamo creato come un filo piuttosto diretto con chi ci segue: la sensazione che vorremmo comunicare con una canzone o un video, per quanto reinterpretata in nuove sfumature, arriva.
I vostri primi pezzi sono tutti molto brevi e i live di conseguenza, tanto da richiedere dei bis.
E anche tris! Dipende molto dal momento in cui la canzone viene pensata, da quali sono le nostre esigenze, da cosa stiamo ascoltando. Chissà, faremo anche una canzone da un minuto. In ogni caso i primi pezzi possiamo considerarli una sorta di skit. All’inizio ci interessava il concept del progetto. Andando avanti abbiamo capito che la materia fondamentale era la musica e abbiamo cercato di dare più vita alla forma canzone: 3 minuti e mezzo, strofa-ritornello e così via. Non ci poniamo limiti di tempo, ma vorremmo strutturarci meglio perché tutto diventasse più rotondo. Ora abbiamo messo a fuoco una semantica, trovato equilibri diversi tra noi, settato ancor meglio i rapporti con i produttori, i Mamakass, e tutto questo si paleserà in un live più strutturato e in canzoni più lunghe.
In un anno avete partorito brani molto diversi. Man mano che l’identità dei Coma_Cose si definisce avete più voglia di consolidare o di sperimentare?
Ci piacciono molte cose e a miscelarle in maniera differente: evolveremo sempre e finché procederemo per singoli ci sarà la voglia di sperimentare. Mi permetto di dire, con onestà e un po’ di arroganza, che abbiamo un modo di fare le cose abbastanza nostro e che chi abbraccia una canzone può a ritrovare lo stesso colore anche nelle altre, per quanto gli stili siano diversi. Certo, quando faremo il disco sarà qualcosa di più omogeneo e compatto, si tratterà di un concept sviluppato in dieci canzoni: è una forma d’espressione che non abbiamo ancora sperimentato. L’idea è quella di chiuderci un paio di mesi in studio alla fine del tour estivo, per uscire col primo vero disco nel 2019: ci serve concentrazione.
Com’è nata Post Concerto e quanto ha contato la produzione sul risultato finale?
Ogni pezzo viene da una forte necessità di fare quella canzone. Se la sentiamo bene, altrimenti ci fermiamo anche per qualche mese. Questa volta avevamo voglia di fare un pezzo più ritmato – ritmo è la parola chiave di tutta l’operazione – di divertirci e di cimentarci con qualcosa che fosse più allegro e catchy. Ci mancava un po’ il sound di Jugoslavia, insomma. Poi, arrivata una canzone del genere, abbiamo cercato renderla fruibile dal pubblico a 360 gradi.
Il fatto che adesso siate spesso in giro per suonare live ha influito su tema e mood del pezzo?
Ci mettiamo sempre a nudo. Quello di Post Concerto è un momento che stiamo vivendo noi, ma che vivono tanti altri: ci arrivano spesso stories su Instagram in cui la gente ascolta i nostri pezzi mentre torna dai concerti, magari nemmeno i nostri. C’è stato un grande ritorno della musica live: una stanza della vita di cui però nessuno parla e che ci sembrava bello fotografare. Ci piacerebbe che le persone, tornando a casa, ascoltassero questo brano per mantiene quella sensazione di presa bene “post concerto”.
È una canzone più pop, sia a livello di melodia, sia nei riferimenti, da Peter pan di stelle a David Bowie, più mainstream di un De Gregori.
Forse il nostro linguaggio si è plasmato verso una direzione meno autoreferenziale e più lontana dal nostro recinto. Ma noi scriviamo sempre a “patchwork”: tanti pezzi di canzone risalgono a due-tre anni fa, compresi quelli che hai citato. Qui ha avuto senso farli convergere.
Nel video di Golgota mettete in scena la Vergine con il Cristo Morto tra le braccia, in quelli di Inverno Ticinese i tre re Magi (french fries, spinello e birra). Poi penso a versi come Habemus Papa al pomodoro e Gesù mi chiama e dice, ‘Oh, tutto Aposto-li?. Da dove arrivano tutti questi riferimenti alla Chiesa?
Siamo italiani: la maggioranza di noi esce dall’oratorio e dalla parrocchia della provincia. Quella parte cattolica della vita rappresenta un certo tipo di infanzia e di costrizione – almeno, io la vivo così. Ci piace giocare, dissacrare una parte della vita che ci ha plasmato, ma da cui nello stesso tempo vogliamo scappare, come tanti altri trasferitisi a Milano. La Chiesa diventa una sorta di escamotage per parlare di un’Italia che non c’è più, di strutture e coercizioni. A volte i riferimenti sono palesi, altre nascostissimi. Lanciano piccole provocazioni, ma sono molto ponderati.
Perdonate la battuta: quanto tempo richiede ogni testo dei Coma_Cose? Quanto lavoro di lima e quanto di Lama?
Ho una nota sull’iPhone dove continuo ad appuntare cose: quando arriva l’illuminazione per un pezzo vado a pescare le cose che possono c’entrare, dò un condimento e nasce la canzone. Non c’è un tempo. A volte passa mese senza che io scriva nulla, poi, appena mi riaccendo, scrivo 50 rime in una settimana.
Fausto Lama una volta era Edipo: il linguaggio, prima più retorico, è diventato ermetico. Possiamo parlare anche di un ringiovanimento linguistico?
Sicuramente c’è un grosso confine. Mi sono reso conto che c’erano tanto mestiere e tecnica, ma che mancava un po’ di anima, perché la nascondevo. Forse essere se stessi aiuta a volte e sono contentissimo di quello che stiamo facendo. Edipo resta una cosa bella, come una coppa vinta alle superiori, che metti sul comodino e fa parte del passato. Penso di aver fatto un paio di canzoni molto profonde, Terra e I nudisti del Mar Baltico, che parlano di politica e che non riuscirò mai a ripetere a livello di altezza o intensità. Ma quel linguaggio è più difficile da capire e mi ero stufato di quel vestito. Il cantautore a volte si sente in dovere di essere retorico e di portare avanti un discorso sociale, ma in realtà è una prigione. Qua ho mollato tutto: bisogna stare liberi, ogni concetto è visibile da tanti punti di vista, e il linguaggio che c’è in Coma_Cose, infatti, è sempre aperto.
Scriverete ancora di Milano, ormai la vostra cifra?
Ci siamo un po’ rotti di sentire canzoni che parlano di Milano. Esistono da Vecchioni, non abbiamo inventato niente. Siamo stati eletti come uno dei gruppi che parla della città, forse in risposa al fenomeno Roma, ma semplicemente abbiamo sempre parlato di quello che viviamo. Prima Milano era il fulcro e cercavamo delle immagini specifiche, ora ci è passata un po’ la voglia: non la cercheremo più a tutti i costi e le pennellate saranno meno vivide.
A maggio a Parigi aprirete ai Phoenix, un giorno prima di Giorgio Poi e uno dopo i Pop-X. Com’ è successo?
Loro hanno fatto un disco in italiano e hanno pensato di ampliare il concept, inserendo l’Italia anche nella proposta delle aperture. So che sono grandi amanti di Battisti e in noi forse hanno trovato dei colori che gli erano già familiari. Forse sono state le french fries. O forse abbiamo un booking fantastico.
Intervista pubblicata su WU 86 (marzo 2018). Foto: Federico Ciamei, style: Serena Pompei, style assitant: Chiara Errica. Tutte le foto sono state scattate all’Apollo Club, via Giosuè Borsi 9 – Milano.
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