FESTIVAL DI VENEZIA, I MIGLIORI CINQUE FILM NON PREMIATI
La ‘spietata’ assegnazione dei premi in un festival lascia tante belle pellicole senza riconoscimento. Ecco quali sono secondo noi i cinque migliori titoli lasciati a secco dalla giuria all’ultimo Festival di Venezia
di Davide Colli
È ormai prassi il fatto che, in un festival dall’elevata qualità media dei film in concorso, qualcuno di essi veramente meritevole possa rimanere escluso dalla corsa ai premi finale per motivi oscuri a tutti tranne che ai giurati, capitanati quest’anno da Guillermo Del Toro. Ovviamente, con 21 film in gara e solo 9 premi da consegnare, accontentare tutti è un’operazione impossibile, ma dispiace constatare che i seguenti cinque non abbiano nemmeno trionfato nelle categorie meno importanti.
Suspiria (2018)
Il primo tra gli “sconfitti” è senza dubbio Luca Guadagnino che, a detta di molti, doveva essere la garanzia per l’Italia di portarsi almeno un premio a casa. Tuttavia qualcosa non è andata secondo i piani e il regista di Chiamami col tuo nome è tornato a casa a bocca asciutta. Il primo pensiero dopo la premiazione è stato il dispiacere di non vedere questo “non remake” estremamente coraggioso nell’ampliare l’immaginario estetico e figurativo del film di Dario Argento non ricevere nemmeno un meritato riconoscimento. Nemmeno la stakanovista Tilda Swinton, alle prese con ben tre ruoli agli antipodi tra di loro, è riuscita ad agguantare la Coppa Volpi Femminile, andata invece ad Olivia Colman per The Favourite. Se con Chiamami col tuo nome si era assistito alla sua rinascita, il Suspiria di Luca Guadagnino rappresenta la sua netta consacrazione come autore, raccontando in maniera eccelsa la devastazione del corpo come singolo e come genocidio di un’etnia grazie al cinema di genere.
The Mountain
Con la sua criticatissima opera terza, Rick Alverson (per la prima volta non al Festival di Locarno) è rimasto a bocca asciutta, soddisfacendo in questo modo la gran parte degli addetti ai lavori che non lo hanno minimamente apprezzato. The Mountain, pur potendo attirare l’astio di un certo tipo di pubblico per la sua eccessiva pretenziosità che trasuda da ogni suo fotogramma, resta in ogni caso una parabola sul complesso edipico veramente interessante, sia per il macabro setting storico (visivamente accattivante nella sua quasi monocromia), sia per l’inusuale approccio nella direzione degli attori, tutti costantemente in affascinante overacting. Una creatura sì informe, ma proprio per questo motivo accattivante e dalla quale è impossibile distogliere lo sguardo.
Sunset
L’opera seconda di Laszlo Nemes era considerata tra le papabili vincitrici dell’agognato Leone d’Oro, ma ha perso la sfida con Roma di Alfonso Cuaron. Inutile ammettere che in Sunset Nemes non raggiunge il livello di congiunzione contenutistica e tecnica del suo esordio, Il figlio di Saul, che gli valse l’Oscar come miglior film straniero. Tuttavia sarebbe scorretto non affermare che, pur con uno stile fin troppo fossilizzato su movimenti di macchina molto similari, Sunset riesce a narrare il “tramonto” del senso civile europeo attraverso una situazione esemplare, ovvero una cappelleria in crisi, che incarna il declino dell’Europa prima della Prima Guerra Mondiale.
Vox Lux
Le inusuali circostanze che fanno diventare una giovane ragazza americana una popstar di fama mondiale si legano alle trasformazioni che gli Stati Uniti hanno subito nel XXI secolo. L’opera seconda di Brady Corbet, già osannato dalla critica veneziana tre anni fa per L’infanzia di un capo, non ha replicato la stessa unanimità nei consensi, pur regalando allo spettatore un’opera decisamente più densa e stratificata nei suoi numerosi sottotesti. Forse per questa motivazione il film non ha ottenuto alcun premio, nemmeno il Premio Mastroianni per Raffey Cassidy (già vista ne Il sacrificio del cervo sacro) e la Coppa Volpi per l’interpretazione di Natalie Portman, che qui interpreta un ruolo per lei inusuale: è una diva ormai affermata volgare e sboccata, esattamente come l’America di Trump che vuole andare a personificare.
Killing
Non c’è stata alcuna soddisfazione nemmeno per un maestro del cinema orientale del calibro di Shin’ya Tsukamoto, che con il suo ultimo film, Killing, ha chiuso la categoria dei titoli in concorso quest’anno. L’esperto cineasta ripropone temi già trattati nel corso della sua filmografia, come la crisi esistenziale della figura del samurai, dovuta alla sua incapacità di collocarsi nella modernità. L’esperienza visiva che scorre per un’ora e venti davanti agli occhi dello spettatore, però, risulta destabilizzante per la sua ferocia visiva. In questa brevissima durata (soprattutto se confrontata con quella delle altre opere in concorso), il regista riflette sulle zone d’ombra della sua civiltà, tipiche di ieri quanto di oggi, trasformandole in materiale percepibile e visibile per mezzo degli spettacolari conflitti con la katana, vero e proprio prolungamento del loro io.
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Davide Colli
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