PAVEMENTS – UN’ALTRA VIA
‘Pavements’ di Alex Ross racconta la storia di una band icona della musica, i Pavement, in un modo alternativo rispetto a quello che abbiamo visto finora
di Davide Colli
Alex Ross Perry e Robert Green sono rispettivamente regista e montatore di Pavements, atipico documentario metacinematografico dedicato all’omonima band indie rock californiana, in concorso nella sezione Orizzonti dell’81esima edizione del Festival di Venezia. Atipico è come non mai la parola giusta, in quanto Pavements i piani del documentario, del biopic e del film concerto si mescolano in un ibrido che non trova molti riferimenti nei tanti tentativi di raccontare le icone della musica sul grande schermo. Ci voleva forse un gruppo come i Pavement per tentare una strada nuova.
Il documentario presenta una struttura a metà tra la realtà e la fiction, come sono stati selezionati i differenti layer presenti nel film (il finto biopic, il musical e il museo dedicati alla band)?
Alex: Sono tutti elementi che mi affascinano e culturalmente rilevanti. La mia intenzione è stata quella di riservare ai Pavements un trattamento come quello destinato solo alla grandi band, quindi film dedicato, musical, ma anche mostre e musei. Anche al di fuori del film, sono tutte cose che avrei voluto esistessero, che avrei voluto vedere. L’idea di fare un film attorno a tutti questi elementi è poi stata successiva e ci ha permesso di ambientare il documentario quasi in una realtà alternativa, dove i Pavement sono un fenomeno globale e non una band di nicchia. Non ho mai visto un progetto che utilizzasse questo approccio.
Robert: Il tutto è nato durante una conversazione ironica sul set di Her Smell (sempre diretto da Alex Ross Perry e montato da Robert Green, NdR). Parlando da fan, questo approccio si è rivelato perfettamente adatto alla band proprio perché i loro pezzi contengono spesso riferimenti metatestuali, per esempio parlano di come ci si senta ad essere in un gruppo e delle pressioni esterne che ti vogliono incasellare come musica lo-fi o come artisti fancazzisti. Quindi trovo che questa struttura a prisma, con molte facce, sia l’unica modalità di raccontare la loro storia.
Per questa struttura avete preso ispirazione da qualche altra opera in particolare?
Robert: Credo che la struttura del film sia stata davvero ispirata dagli album stessi. Avevamo a disposizione moltissimi elementi con cui giocare selvaggiamente. In primis Joe Keery, che è incredibile, come il resto del cast. Non sono incredibili per come si immedesimano nei membri originali della band, ma perché ne hanno capito il mood, così come hanno intercettato quello del progetto. Avere questo arco narrativo sui generis affiancato al resto del film è importante per confermarne la veridicità. Tornando alla struttura, la nostra idea è stata quella di imitare la composizione di Wowee Zowee (album dei Pavements del 1995, NdR): è un disco estremamente eterogeneo, toccando il punk, il rock, il country e il groove. Tutti i generi si mescolano perfettamente.
Alex: Per quanto riguarda il montaggio, ho sempre voluto che ricordasse quello di Dunkirk, un film che amo molto. La storia è articolata in tre differenti lassi di tempo, ma tutti e tre coincidono nello stesso finale. Proprio un film in cui puoi ammirare le sottili vie comunicative del montaggio. Robert qui fa lo stesso: il musical che sta per iniziare, il museo in apertura, le riprese della scena clou del biopic… Queste storie si muovono a velocità differenti, ma grazie al montaggio si muovono sullo stesso consistente binario.
Come si è svolto il processo di casting per la parte del finto biopic?
Alex: È stato tutto molto naturale. Joe Keery è stata la prima e unica scelta. L’idea iniziale era di fare un classico biopic hollywoodiano con Joe protagonista. La seconda scelta più spontanea è stata la spalla di supporto, il manager che cerca di tenere la band assieme, evitando che possa floppare. In quel caso ho sempre pensato a Jason Swartzman. E ho subito trovato la dinamica tra i due molto credibile. Il resto della band si è formato da amici di amici, tutti interessati al progetto. Era abbastanza indescrivibile il film sulla carta, quindi mi sono limitato a dire che si trattasse di un film sui Pavement.
In un periodo storico pieno di biopic musicali, documentari e film concerto, come credete possa evolversi il rapporto tra cinema e musica?
Alex: Spero che evolva. Speriamo che, nel nostro piccolo, abbiamo fatto un passo avanti verso questa evoluzione fornendo un approccio inedito alla materia. Robert un giorno mi disse quanto volesse maggiormente vedere documentari incentrati su un soggetto in particolare, piuttosto che film di finzione dove ogni aspetto della loro realizzazione è dettato dal pilota automatico. Come spettatore mi diverto anche a vedere questo tipo di film, ma non la trovo un’esperienza stimolante da filmmaker. Chi dice che non si possa approcciare un film biografico su un cantante come se si trattasse di un’opera sperimentale, quasi un collage movie? Molteplici split screen, audio scollegato dal materiale visivo… Sono solo alcuni esempi che mi vengono in mente. Lo trovo creativamente molto liberatorio.
Robert: Questi blockbuster ad alto budget su celebri icone musicali si rivelano spesso e volentieri mediocri, ma nessuno specifica il perché della loro scarsa qualità. C’è sempre il tentativo di esprimere l’intero mondo dell’artista in questione che si deve affiancare a necessità di marketing, forzando l’omissione di certi momenti chiave nel percorso dell’icona di turno. Si taglia talmente tanto che il montaggio finale diventa incomprensibile. Si prova a accelerare all’estremo l’andamento del film senza rinunciare a certe tappe del percorso ed è un modo malsano di approcciarsi al cinema. Nel nostro caso c’è sempre stato l’intento non solo di raccontare i Pavement, ma di creare un’opera che dialogasse con la loro musica, con i loro contenuti, con la loro volontà di scardinare le convinzioni e guardarsi dentro, essere metalinguistici.
Nella foto in alto: immagine tratta dalla locandina di Pavements
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