FUNK SHUI PROJECT – STRETTI IN UN ABBRACCIO SOUL
Quella dei Funk Shui Project non è black music italiana, ma caldo r&b sperimentale. Questa volta gli autori di ‘Terapia di gruppo’ si sono affidati alla voce emotiva di Davide Shorty e li potremo vedere tutti assieme dal vivo il 6 dicembre a Torino per Jazz:Re:Found
di Simone Sacco
Tra le future date dei Funk Shui Project (esattamente 13 tra fine novembre e il 26 gennaio 2019) ce n’è anche una a Jazz:Re:Found, in programma nella loro Torino il 6 dicembre prossimo. Appuntamento di prestigio che ci ha portati a contattare il bassista Alex “Jeremy” Cirulli con l’intenzione di fare luce sulle molte novità che ultimamente hanno visto protagonista la sua creatura (del progetto fanno parte anche Nutty Dub ai beats, Manuel Prota alla batteria e Giacomo “Due Venti Contro” alla chitarra) come il secondo album Terapia di Gruppo, ma anche la collaborazione col cantante Davide Shorty e l’impegno di fare la “cosa giusta” anche qui da noi senza copiare gli afroamericani.
Partiamo in quarta: c’è l’influenza dei The Roots dietro alla nascita dei Funk Shui Project?
Facendo le dovute differenze, direi di sì! (ride, NdR) Quando formai la band, nel 2007, eravamo solo in due (io e il chitarrista di allora) e i The Roots erano una nostra fissa. L’affinità è poi cresciuta grazie ai primi rapper coi quali abbiamo collaborato. Sono stati loro a spronarci in quello che stavamo facendo. Anche se…
Paragone troppo impegnativo?
Beh, i The Roots sono la NBA stellare mentre noi rappresentiamo un modo di giocare a basket tutto italiano. Tra l’altro trovo che sia sbagliato mettere le parole “black music” e “Italia” all’interno della stessa frase.
Quanti possono dire di suonare così nel nostro Paese? Mi vengono in mente James Senese a capo dei Napoli Centrale e Giorgia in quel suo vecchio lavoro di fine anni Novanta intitolato Mangio Troppa Cioccolata…
Sono due esempi nobilissimi dove ci mise lo zampino un certo Pino Daniele (il bluesman napoletano suonò il basso in un disco dei Napoli Centrale e produsse quell’album di Giorgia, NdR), però stiamo parlando sempre di due casi. Ragion per cui preferiamo fare le nostre cose senza darci troppe etichette che potrebbero ritorcersi contro.
Però, ascoltando Terapia di Gruppo, ci sento dentro una continuità tra quello che faceva Neffa ai tempi dei Messaggeri della Dopa e un’opera del 2017 – molto applaudita – come è stata Midnight di Ghemon…
Magari quel fil rouge esiste sul serio e, se così fosse, ne sarei orgoglioso. Con una dovuta precisazione: io non sono mai stato un “soldato dell’hip hop” e non me ne faccio paladino. I miei referenti musicali sono altri. E sto parlando di bassisti fusion come Marcus Miller o Stanley Clarke.
Ti senti a tuo agio nella musica di oggi?
Insomma. Non mi ci vedo ad aggiornare costantemente la mia pagina social o uscire ogni tot con una canzone nuova. Già passare dalla registrazione analogica al ficcare tutto dentro un computer è stato un mezzo dramma per me! Se ho messo su questo gruppo è per lasciare qualcosa di buono a chi ci ascolta. Qualcosa che magari vi piacerebbe portare a casa in formato vinile. Qualcosa per cui abbiamo interpellato un bravo illustratore (Ale Giorgini, NdR) perché non ci andava di uscire con una copertina scadente e realizzata in cinque minuti.
Ti sento genuinamente irrequieto quando parli della band. È per questo motivo che cambiate spesso il cantante? Davide Shorty è già il terzo della lista dopo Kiave e Willie Peyote…
Con Davide le cose vanno alla grande però abbiamo sempre questa maledetta paura di trovarci in qualche situazione musicalmente stagnante. Ne ho visti troppi di gruppi partiti benissimo e poi deragliati per scazzi tra i vari membri. La miglior filosofia è sempre quella di fare un passo alla volta nella speranza che, un giorno, magari avrai fatto di tutto e di più.
Tipo avere una voce femminile dietro il microfono? Vi ci vedrei bene a “musicare” una donna, e non sarebbe male anche sul palco.
Mi hai letto nel pensiero! La tentazione c’è, ma al momento mi è impossibile parlare del futuro dei Funk Shui Project.
Shorty ha messo molto di suo nei testi di Terapia di Gruppo dei Funk Shui Project. Sembra quasi di ascoltare un concept album sull’incasinata vita sentimentale di un trentenne contemporaneo…
Sì, ci siamo confrontati con lui dandogli tutta la libertà che desiderava, ma il gruppo appartiene ad altre quattro persone e alla ne ci deve essere compatibilità a livello di liriche. Ecco il perché di una traccia politica come Fuori di noi (alla quale partecipa anche Tormento, NdR) o gli svariati temi emotivi che partono sì dalle esperienze personali di Davide, ma alla ne riguardano pure noi.
L’ultima domanda è sui Subsonica, dato che nel loro recente album 8 collabora il vostro ex frontman Willie Peyote nel pezzo L’incubo: un tuo giudizio su Casacci e soci?
Prima di tutto sono felice per Willie: quel featuring è una bella bandierina per la sua carriera. Tra noi e i Subsonica, invece, va un po’ come quando esplose il fenomeno del grunge a Seattle. Ok, ci unisce Torino, ma ci muoviamo anche in mondi decisamente differenti.
Possiamo dire però che c’è rispetto?
Sì. Sono dei divi da palasport, ma mi piace che pubblichino dischi a grande distanza di tempo l’uno dall’altro. E solo quando sentono di dover dire qualcosa.
Intervista pubblicata su WU 92 (novembre 2018). La foto dei Funk Shui Project è di Andrea Noseberchi
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