IL GIOCO DELLE COPPIE, DI COSA PARLANO VERAMENTE I ‘GAUCHE-CAVIAR’
‘Il gioco delle coppie’ è la commedia di Olivier Assayas che piace tanto ai “radical chic” perché parla come (e di) loro
di Gaetano Moraca
Appena fuori dalla sala una signora, incapace di celare la sua stizza, inveisce contro i critici italiani che hanno venduto questo film come «la risposta francese a Perfetti sconosciuti». E a giudicare da qualche sonoro ronfo a metà proiezione è facile immaginare la delusione di chi, fuorviato dal furbetto quanto terribile titolo italiano Il gioco delle coppie, si sarebbe aspettato qualcosa di più osé. Il titolo originale del film di Olivier Assayas – regista ed ex critico per i “Cahiers du cinéma”, in concorso all’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia – è Doppie vite (Non Fiction in inglese) che in italiano non è che avrebbe fatto poi cattiva figura. Ma la distribuzione nostrana evidentemente crede di avere di fronte branchi di rincitrulliti, tanto che anche la locandina fa apparire questa colta commedia francese come un cinepanettone farcito di scappatelle ed equivoci (anche in questo caso, niente a che vedere con quella francese).
Ma bando alle polemiche, in Il gioco delle coppie ci sono: Alain (Guillaume Canet), un grosso editore a capo di una casa editrice storica che deve capire come sfruttare il digitale per non esserne fagocitato; sua moglie, Selena (Juliette Binoche), attrice diventata nota al grande pubblico grazie a una serie tv poliziesca che interpreta controvoglia; Léonard (Vincent Macaigne), scrittore pubblicato dalla casa editrice di Alain ma incapace di scrivere storie che non siano autobiografiche (con tutto ciò che comporta per le persone reali della sua vita che fa diventare personaggi); Valérie (Nora Hamzawi), compagna di Léonard, che cura la comunicazione di un politico nel quale crede fermamente. Oltre alle coppie c’è anche Laure (Christa Théret) consulente digitale della casa editrice.
Ebbene questi signori parigini passano da un salotto all’altro, in compagnia di amici, scrittori, intellettuali e gauche-caviar come loro (i nostri radical-chic), a discettare di tutte quelle cose impalpabili che tanto interessano a noi che ci occupiamo di editoria, di cinema, di digitale, che andiamo alle presentazioni dei libri, alle mostre e che ascoltiamo podcast, ma che al cosiddetto e fantomatico “paese reale” manco per niente. Dialoghi fitti fitti – quasi che a momenti sembra di assistere a un convegno o a un documentario – in cui si parla di tutto e niente: che poi alla fine questi e-book non hanno portato il futuro che ci si aspettava; che ora vanno forte gli audiolibri, in verità; che forse le serie tv creano un’insana dipendenza, lontana dall’idea originaria di cinema; che l’arte non può essere gratis altrimenti rischia di perdere il suo valore, che però se uno deve spendere mille euro per iPhone non ci pensa due volte, ma guai a chiedergli 1,50 per un quotidiano o un articolo online a pagamento; che Google ruba i dati personali per regalarli ai pubblicitari, perché nessuno fa niente per niente; che i politici sono interessati alla poltrona mica al bene comune, signora mia. Ognuno ha le sue idee, talvolta qualcuno si spalleggia a vicenda, ma nella maggior parte dei casi in questi salotti dove non si mangia seduti a tavola ma coi piatti sulle ginocchia o si volteggia coi bicchieri in mano, circolano molte banalità e alla fin fine ognuno se ne torna a casa con l’idea con cui era partito. Un po’ come nelle bolle digitali che malefici algoritmi hanno creato a nostra immagine e somiglianza e nelle quali ci hanno ammaestrato a vivere.
Così che in mezzo a tanto ciarlare Il gioco delle coppie – i tradimenti e le storielle perpetrati dai protagonisti – sembra configurarsi come l’unica inossidabile certezza di una generazione di quaranta-cinquantenni alle soglie di una rivoluzione che non ha idea di come affrontare. Appunto, che tutto cambi affinché nulla cambi, una delle amabili citazioni da conversazione del film.
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