THE CREATORS | CHIARA MIRELLI
La terza puntata di ‘The Creators’ è dedicata alla fotografia “applicata” alla musica: ne parliamo con Chiara Mirelli, fotografa che ha ritratto in questi anni tutti i protagonisti della scena musicale italiana
di Futura 1993
Chiara Mirelli è la protagonista della terza puntata di ‘The Creators’. Il suo è un nome estremamente noto all’interno del panorama musicale italiano: ha fotografato praticamente tutti in Italia nella sua carriera, da Salmo ai Ministri, da Bloody Beetroots ai Subsonica, e anche artisti più recenti come Elodie e Venerus.
Nel corso della sua carriera Chiara Mirelli ha affinato il suo stile rendendolo sempre più personale e riconoscibile, tra ritratti in studio e scatti di esibizioni live degli artisti. Vissuta e cresciuta professionalmente a Milano, dove dai servizi di moda degli esordi è passata alla sua musica, ha curato l’immaginario visivo di interi progetti musicali, ma ha prodotto anche foto capaci di mostrare lati più intimi e umani dei musicisti sul palco e non solo.
La figura del fotografo musicale ha visto una crescita esponenziale nel corso degli anni, grazie alla possibilità di veicolare una narrazione visiva efficace attraverso i social network, passaggio obbligato per chiunque cerchi di aprirsi le porte nel mondo della musica. Per capire qualcosa in più sui dettagli poco conosciuti della professione, abbiamo chiesto aiuto a Chiara: ecco cosa ci ha raccontato.
Raccontaci il tuo percorso: come ti sei avvicinata alla fotografia e successivamente all’ambito musicale?
Arrivo da studi completamente diversi, dopo la ragioneria mi sono iscritta alla facoltà di Giurisprudenza a Pavia, che ho lasciato per provare a prendere sul serio la mia passione per la fotografia. Ho provato a entrate alla Bauer di Milano, ma al primo tentativo non mi hanno presa. Allora ho seguito per un anno un corso di camera oscura per potermi ripresentare con maggiore credibilità ai loro occhi: il secondo tentativo è andato bene e ho completato il percorso di studi in due anni. In seguito ho iniziato a fare l’assistente di studio e, in particolare, ho lavorato per molto tempo con Condè Nast. È stata una grandissima palestra: ogni giorno mi ritrovavo a lavorare con fotografi diversi e osservarli mi ha permesso di capire cosa mi piacesse di più da un punto di vista stilistico. In questa esperienza ho anche capito che non volevo focalizzarmi su questo tipo di fotografia: a me interessavano le persone, volevo fare loro dei ritratti per raccontare la loro storia. Sono sempre stata una grandissima appassionata di musica, forse più della fotografia addirittura, quindi ho seguito il mio istinto approcciandomi a un mondo che mi piaceva: da amici musicisti che suonavano nello scantinato a tartassare di mail artisti per chiedere se fosse possibile fotografarli durante le prove, ma non ho mai chiesto l’accredito per andare a scattare sotto palco, una situazione troppo impersonale. Da lì ho cominciato con i primi contatti, realizzando i primi servizi di questo tipo nel 2006 per “Vanity Fair” e mano a mano ho arricchito il mio portfolio, conoscendo sempre più persone nel mondo della musica e della discografia grazie a un circolo virtuoso. Così sono riuscita a potermi occupare di quello che ho sempre amato.
Hai dei fotografi di riferimento che ti hanno particolarmente ispirato?
Sicuramente una delle più grandi fonti di ispirazione è stata Annie Leibovitz, per anni ho visto i suoi scatti in qualità di inviata di “Rolling Stone”, sognando di poter fare la sua stessa cosa nella vita. Nel tempo ho scoperto sempre più cose, infatti gran parte dei miei soldi li investo in libri per avere continui stimoli. Gli occhi si devono abituare a costanti novità, magari anche lontanissime da ciò di cui mi occupo io. Sicuramente uno dei nomi che attualmente seguo maggiormente è Ryan McGinely, di cui non mi perdo una pubblicazione. È necessario ampliare il proprio immaginario per non ripetersi e avere sempre nuovi orizzonti da esplorare.
Come avviene il rapporto creativo con l’artista che stai raffigurando? Come ti relazioni con i vari membri di un team durante le sessioni di shooting?
Ci sono diverse situazioni. Se si stanno scattando le foto per accompagnare l’uscita di un disco, per esempio, la giornata verterà sugli scatti di copertina e su quelli promo da poter fornire alla stampa. Prima dello shooting ci si incontra con i musicisti e il relativo team (discografici, management, ufficio stampa, stylist, grafico, ecc.) per poter studiare nei dettagli il prodotto finale. Non è sempre così: a volte certi artisti hanno perfettamente in mente quello che vogliono, quindi la sinergia è ancora più semplice; invece, se l’etichetta o il management decidono di dare una precisa impronta visiva, le riunioni preliminari sono fondamentali per stabilire la linea da seguire e la fattibilità delle proposte, in un fertile scambio di idee. In sintesi è tutta questione di un buon bilanciamento fra budget, ideazione, styling, trucco e creazione. I fotografi, dunque, vengono anche selezionati di conseguenza, in base al risultato complessivo che si sta cercando.
La fotografia in studio è molto diversa da quella “live”: quali sono le principali differenze?
Quando si lavora live ogni cosa è totalmente improvvisata. In situazioni così chiedo maggiormente carta bianca, in modo da poter stare direttamente sul palco per l’intera durata dello spettacolo, e non scattare solo i primi tre pezzi da sotto palco come molti colleghi sono costretti a fare. La mia giornata tipo dal punto di vista live comincia ben prima del concerto stesso. Arrivo fin dal pomeriggio o, in certi casi, addirittura il giorno prima per seguire ogni singola fase: il montaggio del palco, le prove e il soundcheck, così da sapere già i movimenti previsti e sapere esattamente dove posizionarsi nei momenti d’impatto. Poi, nelle situazioni in cui è concesso, posso seguire l’artista fino in camerino per realizzargli dei ritratti in quel contesto. In ogni caso è tutto frutto di grandissima improvvisazione, sfruttando la luce che trovi e cogliendo le occasioni senza troppi ragionamenti preventivi. Ed è una fatica fisica, soprattutto nei grandi spazi. Per esempio, nei concerti al Forum può capitare di dover correre dal palco attraverso i corridoi fin dall’altra parte del palazzetto per immortalare una panoramica d’insieme in un esatto momento, quindi è richiesto tanto impegno e, nei casi di alcuni amici e colleghi come Pepsy Romanoff, regista di Vasco Rossi, allenamento per mesi.
Con alcuni musicisti hai realizzato interi progetti, seguendoli in tour e aiutandoli a sviluppare la parte visiva del loro lavoro. Hai qualche aneddoto o ricordo particolare che ti andrebbe di condividere?
Una delle situazioni più assurde e complesse è avvenuta un paio di anni fa a Londra con i Subsonica. Loro erano lì per ultimare il mixaggio del loro album 8, e io li avevo seguiti con la loro manager per realizzare gli scatti promozionali. Non ero in ottime condizioni perché il giorno prima mi ero slogata una caviglia. Non potevo però rimandare il viaggio, così mi sono fatta forza e sono andata lo stesso. Il disco aveva un’impostazione molto grafica, dunque avevamo ragionato su possibili contesti che ben si sposassero con quell’immaginario, trovando un parchetto con un campo da basket perfetto per noi. Per prima cosa dovevamo trovare un pallone da basket, cosa che avevamo sottovalutato dato che non è stato per nulla facile trovare un negozio di articoli sportivi che ne vendesse uno come lo volevamo noi, quindi abbastanza classico e non esageratamente pieno di loghi. Dopo aver girato interi quartieri a piedi – sempre con la caviglia slogata– alla ricerca di un pallone lo abbiamo finalmente recuperato, ma sgonfio. È quindi partita un’ulteriore avventura alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarci in tal senso, senza trovare chi ci potesse aiutare. Avevamo quasi perso le speranze quando ad un angolo della strada abbiamo incontrato un signore in bici con una pompetta portatile per le gomme, e gentilissimo, ce l’ha prestata per gonfiare il pallone. Inoltre, avevamo pensato di scattare al tramonto, per ragioni di migliore illuminazione, ma quando siamo arrivati lì era occupato da dei ragazzini che giocavano. Non potendoli mandare via, nell’attesa siamo andati a berci una birra al pub, senza però troppa convinzione di poter realizzare le foto quella sera. Invece, al nostro ritorno abbiamo trovato il campo libero e con le condizioni climatiche ideali per uno dei servizi meglio riusciti degli ultimi anni, spontaneo, genuino, con l’intera band vestita con ciò che aveva in valigia, giocando per davvero a basket tra una foto e l’altra (ride, NdR). Insomma, questa è la prova che non sempre le foto migliori avvengono in contesti perfettamente sotto controllo, dagli imprevisti possono nascere immagini indimenticabili.
Il tuo profilo Instagram è caratterizzato da un marcato uso del bianco e nero, cosa ti ha portato a questa scelta?
Storicamente il mio profilo ha sempre avuto solo foto in bianco e nero, per una mia pura scelta di coerenza stilistica. Solo agosto, per una gag nata tra i miei amici, è il “mese del colore”, in cui quindi posto unicamente immagini a colori. Però molte foto in bianco e nero che ho pubblicato sono nate a colori, lì ho scelto di proporle diversamente perché Instagram è sì una vetrina, ma lo vivo molto anche come un gioco. Nel mio portfolio ci sono moltissime foto a colori che mi vengono richieste: non è il modo di espressione che preferisco e se potessi sceglierei sempre b&w senza alcun dubbio, ma a volte bisogna anche adeguarsi un po’ alle richieste degli uffici stampa. Nonostante questo, penso che bisognerebbe rispettare maggiormente le preferenze estetiche degli artisti, che in molti casi funzionano benissimo proprio senza colori.
Quali sono gli elementi indispensabili all’interno della tua attrezzatura?
Non sono mai stata una nerd di attrezzature, basti pensare che in vent’anni che faccio questo lavoro ho cambiato solo tre macchine fotografiche. Ho iniziato con una vecchia Canon manuale usata, non c’era ancora il digitale. In seguito ho acquistato una Canon a rullino e infine una digitale. Tendo a non cambiare modello in concomitanza con le nuove uscite, lo ritengo poco funzionale per ciò che faccio. A meno che non servano delle cose giganti, utilizzo solitamente un 35mm, ossia il formato normale, e non ho nemmeno due corpi. A volte rimango stupita nel vedere certi colleghi sotto palco con tre o quattro macchine diverse al collo, un po’ mi fanno tenerezza. Capisco che debbano fare in tre minuti quello che tu fai in quattro ore, ma come fai a lavorare con tutte quell’attrezzatura appresso? Svelo poi una curiosità personale: mi porto sempre un piccolo led in tasca perché non mi piace il flash, troppo piatto e non controllabile. Il led, all’opposto, mi consente, tramite la mano sinistra, di direzionarlo come preferisco per illuminare le parti che preferisco far risaltare nell’immagine, giocano così anche con le ombre.
Ultimamente c’è un grande revival dell’analogico: tu che ne pensi? Ti piace o preferisci lavorare in digitale?
Ognuno dovrebbe sentirsi libero di fare ciò che vuole, sono scelte stilistiche e anche se non affini al proprio approccio vanno comunque rispettate. Un tempo si scattava solo in pellicola, ma, per ragioni di costi e funzionalità, il digitale ha preso il sopravvento. Tendenzialmente scatto solo in digitale ma tutto a mano, quindi la foto comunque deve venire bene già così, non posso aggiustarla troppo successivamente. Inoltre, non faccio postproduzione, pago qualcuno che la faccia per me. Certo è che con la pellicola non hai alibi: o viene bene o non viene. Con il digitale puoi elaborare maggiormente il risultato finale, fino addirittura ad avere intere opzioni di programmi dedicate al conferire ad una foto le sembianze analogiche. La cosa più importante è che ognuno si esprima nella maniera più personale e onesta possibile. Data una stessa macchina a dieci fotografi diversi, per esempio, dovremmo sempre ottenere dieci lavori diversi, ognuno influenzato dal gusto e dall’estetica del singolo. Ricollegandomi alle mie influenze, uno dei miei fotografi preferiti in assoluto è Jacopo Benassi, che, a differenza mia, fa un uso smodato ma intelligente del flash, con risultati che apprezzo moltissimo.
Cosa ascolta Chiara Mirelli fuori dal lavoro?
Che fatica, questa è la domanda più difficile (ride, NdR). Spazio moltissimo tra i generi, innanzitutto posso dirti già cosa non amo particolarmente, come il reggae e il classic rock. Dico un po’ di nomi random tra quelli che più ascolto: Caribou, Four Tet, Cosmo, Cigarettes After Sex, Chet Baker e tutto quel filone jazzistico, Prince, Erykah Badu – artista dei sogni che avrei sempre voluto fotografare per la sua impareggiabile estetica – John Mayer, Little Dragon, James Blake – l’ho visto al C2C a novembre, spaziale –, Kendrick Lamar e un’infinità di altri nomi. La vera sorpresa è stata a dicembre quando Spotify ha fatto la classifica delle cose da me più ascoltate nel 2019, l’artista da me più “consumato” è risultato essere Loyle Carner, un cantante hip hop inglese veramente fenomenale ma da noi poco conosciuto. Infatti subito dopo aver visto le mie stories mi ha scritto il produttore Tommaso Colliva – che vive a Londra – dicendomi che solo io in Italia avrei potuto avere Loyle Carner come artista dell’anno (ride, NdR).
Intervista a cura di Filippo Duò
Nella foto in alto: Chiara Mirelli
Chiara Mirelli su: Instagram | Sito
Tutte le foto nella pagina sono di Chiara Mirelli
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